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Letteratura e morte: l’atteggiamento di Foscolo e Manzoni #4

La letteratura non ha mai smesso di interrogarsi sul tema della morte e neppure ha tralasciato di darle una veste rappresentativa. Tra i tanti autori che hanno trattato l’argomento, analizziamo la posizione di Foscolo e Manzoni.

La letteratura non ha mai smesso di interrogarsi sul tema della morte e neppure ha tralasciato di darle una veste rappresentativa. Tra i tanti autori che hanno trattato l’argomento, analizziamo la posizione di Foscolo e Manzoni.

Ugo Foscolo (1778 – 1827) esprime la sua opinione sulla morte in particolare nelle sue opere poetiche.
Nel sonetto “Alla sera” (1803) si intravede già la sua convinzione materialistica che diventa inequivocabile in “Dei Sepolcri” (1806-07), opera in cui l’autore disquisisce sulle nuove leggi napoleoniche relative ai cimiteri (decreto di Saint-Cloud, 1804), leggi che dovevano essere introdotte anche in Italia. In pratica, per il poeta dopo la morte c’è solo il nulla.

Verseggiare sulla morte, però, non era certo una novità. Già nel Settecento, i poeti inglesi detti “sepolcrali” avevano trattato questo tema. Ricordiamo: le “Notti” di Edward Young (1683 – 1765; poeta e prete anglicano britannico); le “Meditazioni sulle tombe” di James Hervey (1714 – 1758; ecclesiastico e scrittore inglese); la famosa “Elegia scritta in un cimitero campestre” di Thomas Gray (1716 – 1771; poeta inglese, studioso dei classici e professore di storia all’Università di Cambridge). Inoltre, esisteva anche un importante antecedente italiano: il “Saggio intorno al luogo del seppellire” dell’illuminista Scipione Piattoli (1749 – 1809; intellettuale, scrittore e prete italiano, appartenente all’Ordine degli Scolopi).

Foscolo si inserisce appieno in questo filone e le conclusioni che lascia ai posteri sono: di accettare la morte, come un evento che fa parte del ciclo naturale della vita. Però, l’uomo, conscio della finitezza della vita, non deve vivere in modo passivo, bensì, nell’arco della propria esistenza, tutti possono fornire un contributo per orientare la storia verso una data evoluzione, e per il poeta la memoria sarà il vero riscatto dall’oblio e dal nulla della morte.
Tradotto: la poesia può dare all’uomo l’immortalità. Il ricordo dei grandi spiriti permette a chi è venuto dopo di loro di realizzare gli ideali e condurre la civiltà umana attraverso le sue faticose conquiste.

Un altro autore esprime la sua opinione riguardo alla morte, trattando nel suo romanzo di una malattia infettiva letale: la peste.
Stiamo parlando di Alessandro Manzoni (1785 – 1873) che, ne “I promessi sposi” (pubblicato in una prima versione tra il 1825 e il 1827), attraverso i diversi atteggiamenti assunti dai personaggi e dal narratore nei confronti della peste e di conseguenza della morte, ci mostra quale sia il suo pensiero in proposito.

Seguendo i passi della Bibbia, la peste non è altro che uno strumento dall’azione purificatrice. Essa serve a ripulire la terra dal male e a punire gli uomini che vivono nel peccato. Manzoni non si oppone a tale idea della morte, ma non è del tutto d’accordo ed esplorando tra le affermazioni dei personaggi del suo romanzo, scopriamo che ci sono posizioni diverse. Don Abbondio definisce la peste come una “scopa” che ripulisce la terra. Per Padre Cristoforo, invece, talvolta rappresenta un “castigo“, in altri casi, è segno di “misericordia“.
Il narratore poi, ha una posizione di stampo provvidenziale: “tutto è bene quel che finisce bene“.

In copertina: particolare del dipinto “Henri Cordier” (1883) di Gustave Caillebotte (Parigi, musée d’Orsay)

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