Gli Egizi credevano che l’anima tornasse periodicamente a visitare il corpo che l’aveva ospitata, per accertarsi che fosse ancora integro, quindi, praticavano la mummificazione per consentire alle anime dei defunti di vivere pacificamente nell’aldilà.
La civiltà egizia è ampiamente conosciuta per la pratica della mummificazione e per le sue mummie. La parola “mummia” deriva dall’arabo mūmiyya, nome che denotava la materia usata per l’imbalsamazione: bitume, pece, ecc.
È probabile che l’origine della mummificazione derivi da una scoperta: i defunti, solitamente seppelliti dentro fosse nel deserto, non si decomponevano, ciò dipendeva dall’aridità del clima; gli Egizi tradussero questo fenomeno naturale in un’arte che, all’inizio, era riservata al sovrano e ai suoi familiari, poi si estese ai nobili e ai ricchi.
Il rituale dell’imbalsamazione era complicato. I sacerdoti imbalsamatori dovevano avere conoscenze approfondite di anatomia e chimica e dovevano agire con rapidità, per evitare la decomposizione dei corpi a causa del caldo.
Il lavoro si svolgeva in appositi laboratori vicini al Nilo o a uno dei suoi canali: il corpo doveva essere lavato più volte prima di giungere alla fine del procedimento.
Il defunto prima di tutto era lavato e purificato, poi dalle sue narici si estraeva il cervello con un ferro lungo e curvato in punta. Successivamente, si incideva l’addome e si asportavano gli organi interni (fegato, intestino, polmoni e stomaco): la loro presenza avrebbe accelerato il processo di decomposizione.
Il cuore era lasciato al suo posto, perché gli Egizi credevano fosse la sede dell’anima e, secondo il Libro dei morti, doveva essere pesato su una bilancia (psicostasia) da Anubi.
Gli organi estratti, invece, si facevano essiccare e dopo vari trattamenti con resine e oli erano sistemati in dei vasi canopi (chiamati così da Canopo, una città sul delta del Nilo, vicina ad Alessandria).
I vasi erano posti nella tomba, durante i riti funebri, accanto al sarcofago; raffiguravano i quattro figli di Horus e avevano il coperchio a forma di sciacallo, babbuino, falco e uomo; servivano a proteggere gli organi dalla decomposizione.
In seguito, il corpo era immerso nel natron (sale di sodio esistente in natura, presente nelle pozze di esondazione del Nilo) per 40 giorni, per eliminare tutti i liquidi. Poi era lavato con vino di palma per bloccare il decorso della decomposizione.
L’interno dell’addome, precedentemente svuotato, era riempito di bende imbevute di natron, pezzi di lino e segatura, per ridare al corpo la forma originaria; al posto degli occhi erano collocate delle pietre circolari. Successivamente, il corpo era ricoperto di natron e unto con oli balsamici; sopra l’incisione nell’addome era posta una placca di metallo (occhio di Horo) e infine, il corpo era avvolto con strisce di tela di lino intrise di resina.
Nel bendaggio si riportavano formule magiche e si introducevano degli amuleti legati alla vita (Ankh, scarabei, Djed) che servivano a proteggere il defunto dai pericoli che avrebbe dovuto affrontare nell’aldilà (Duat).
Il processo di mummificazione durava circa 70 giorni, ciò consentiva di preparare contemporaneamente la tomba che avrebbe ospitato il defunto.
Il rito funebre seguiva la mummificazione, il corpo era collocato nella tomba.
Cerimonie e tombe si differenziavano in base allo stato sociale del defunto: da semplici inumazioni si passava a sepolture molto ricche, abbinate a preziosi corredi funebri.