L’idea che gli Etruschi avevano dell’aldilà cambiò sostanziosamente nell’arco di tempo in cui la loro civiltà si sviluppò, crebbe e poi si estinse. Passarono dalla visione di un luogo sereno e positivo a uno fatto di tenebre e sofferenza.
Gli Etruschi si distinsero per molti aspetti legati alla loro civiltà, i primi a emergere furono quelli legati alla morte: le necropoli e le loro singolari sepolture costituiscono una parte essenziale di ciò che ci resta di loro.
Per gli Etruschi ogni risvolto della vita era connesso a una forte ritualità. Persino la costruzione di una città era considerata un rito che prevedeva l’esecuzione di una serie di gesti simbolici.
Come prima cosa si tracciava un solco circolare (il cerchio simboleggiava la compiutezza e l’armonia), poi si individuavano i due assi principali: il cardo e il decumano. All’incrocio dei due assi, proprio al centro del cerchio, si costruiva un pozzo che rappresentava la porta di accesso all’aldilà.
Questo varco, aperto alla fondazione di una nuova città testimonia che per gli Etruschi il mondo ultraterreno era localizzato nel sottosuolo, altrettanto avveniva per i Romani e i Greci.
Nei pozzi sacri, gli Etruschi gettavano offerte solide o liquide destinate alle divinità dell’oltretomba.
Gli Etruschi avevano anche altri “canali” di comunicazione con l’oltretomba: delle porte collocate in punti strategici. Una di queste porte si credeva fosse situata nell’isola Bisentina, nei pressi del lago di Bolsena, quest’isola, per il popolo etrusco, era sacra.
Gli Etruschi hanno anche lasciato una rete di cave e passaggi scavati tra roccia e terra che, secondo le leggende, erano i percorsi sacri di iniziazione per accedere all’oltretomba.
Un altro insolito passaggio ultraterreno contemplato dagli Etruschi è la cosiddetta “porta del morto”, una porta iniziatica; ispirata dagli Egizi, passerà anche nelle tradizioni romane.
La porta del morto consentiva il passaggio tra due realtà, dalla vita alla morte, ed era anche il simbolo di una trasformazione, di una mutazione di stato.
La “porta del morto” era collocata nelle abitazioni accanto alla normale porta d’ingresso; era un’apertura stretta, collocata su un gradino molto alto. Le due porte affiancate, asimmetriche rispetto alla facciata, erano molto differenti per dimensioni e forma.
Il normale accesso dell’abitazione consentiva di entrare e uscire agli occupanti della casa e ai visitatori; l’altro ingresso, invece, era murato e veniva utilizzato solo per far transitare la salma, poi era subito sigillato, per evitare un possibile ritorno.
Per gli Etruschi, questa porta era fondamentale, al punto da essere riprodotta persino nelle tombe.
In tempi più antichi, prima di subire l’influenza del mondo greco, gli Etruschi credevano a una sorta di “sopravvivenza” terrena dei defunti che continuavano una sorta di vita nelle loro città: le necropoli, affiancate alle città dei vivi.
Nei secoli successivi, dal V secolo a. C., ma soprattutto dal III secolo, si affermò una nuova visione dell’aldilà ispirata dal mondo greco e dall’angoscia che pervade gli Etruschi, quando diventano consapevoli che la loro civiltà era ormai al tramonto. La nuova concezione dell’oltretomba divenne quella di un regno oscuro popolato da divinità infernali e dagli spiriti degli antichi eroi.
In questa nuova fase, gli Etruschi credono che i defunti, una volta oltrepassata la soglia dell’oltretomba giungano in un luogo triste e spaventoso, abitato da terribili demoni.
Le anime dei morti, come avveniva anche in altre civiltà, intraprendevano un viaggio per raggiungere il regno dei morti, viaggio che compivano solitamente a piedi, a volte a cavallo. Lungo il difficile percorso, i defunti incontravano diverse creature che rivestivano ruoli diversi: Tuchulcha, il mostro dalle orecchie d’asino e dal volto di avvoltoio, armato di serpenti che sorvegliava l’entrata dell’aldilà; Charun (che richiama la figura del greco Caronte), un demone dal volto deforme e dall’aspetto semibestiale, armato di un pesante martello; Vanth (ispirata alla Moira greca), una dea con grandi ali, emblema del destino, del fato implacabile, lo scopo di questa divinità era quello di accompagnare le anime dei morti e per questo reggeva una torcia che illuminava il cammino.
Nell’ottica degli Etruschi le azioni compiute in vita non influenzavano in alcun modo il destino finale dell’anima. Essi credevano che i defunti fossero tutti indistintamente soggetti a un’identica sorte.
Solo intorno al V secolo a.C., per l’influsso della cultura greca, si profilano dei cenni a dottrine di salvezza, alla possibilità che le anime possano acquisire uno stato di beatitudine.
In questo periodo, gli Etruschi credevano che le anime soffrissero costantemente, ricordando i momenti lieti della loro vita terrena.
Per migliorare le condizioni delle anime si potevano celebrare dei particolari riti contenuti nei “Libri Acherontici” (da Acheronte, fiume dell’Ade), cioè dei libri di rituali che contenevano formule e descrizioni dei vari passaggi che le anime dei defunti dovevano affrontare per raggiungere l’aldilà.
Questi libri appartenenti alla civiltà etrusca erano simili nella concezione al Libro dei Morti e ai Testi dei Sarcofagi degli Egizi.