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Cultura letteratura

Letteratura e morte: tra eccentrici funerali e vite esemplari #3

La morte può provocare strane reazioni negli uomini. C’è chi, in una visione materialista del fatale avvenimento, fa le prove del suo funerale e chi, in una visione laica dell’immortalità, predica una vita esemplare, per restare nel ricordo di chi è ancora in vita.

La morte può provocare strane reazioni negli uomini. C’è chi, in una visione materialista del fatale avvenimento, fa le prove del suo funerale e chi, in una visione laica dell’immortalità, predica una vita esemplare, per restare nel ricordo di chi è ancora in vita.

Come anticipato in un post precedente, c’era in molti la convinzione che dopo la morte fosse ancora possibile ravvisare delle differenze sociali tra i defunti.
Gaio Pompeo Trimalcione Mecenaziano, più conosciuto come, Trimalcione, personaggio inventato e protagonista di un ampio frammento del “Satyricon” di Petronio (Gaio Petronio Arbitro, 27 – 66), è uno di questi. Per rimarcare il suo status sociale, ogni sera mette in scena il suo funerale, organizzando una cena, dove lui si finge morto e costringe i suoi commensali a piangerlo.
Lo scopo della “sceneggiata” è quello di verificare di persona l’eventuale magnificenza delle sue future esequie.

Ai poveri partecipanti non risparmia nulla: innanzitutto, si fa condurre i paramenti funerari e l’ampolla dell’unguento; chiede che gli sia portato il lenzuolo mortuario e la toga, poi, aperta l’ampolla unge i suoi ospiti. Successivamente, accoglie i suonatori di corno nella sala del macabro banchetto. Uno dei suonatori mette così tanta foga nel suo compito da svegliare il vicinato e fa persino sopraggiungere i vigili del fuoco, convinti che stia divampando un incendio.

A questo atteggiamento tra il macabro e l’eccentrico si affiancano posizioni più moderate e morigerate. C’è chi, per superare l’angoscia della dipartita, si appoggia non solo alla religione, ma anche a una forma laica di idea della sopravvivenza, quella affidata al ricordo di una vita esemplare. Infatti, come dice Virgilio (Publio Virgilio Marone, 70 a.C. – 19 a.C.) nell’ “Eneide”: “torna alla memoria la grande virtù dell’uomo e la grande nobiltà della sua gente”. Quindi, pur essendo trapassati, se si è stati un esempio fulgido, un esempio da ricordare; se è possibile restare utili anche dopo la morte, perché in vita si è stati dei grandi uomini, la cui presenza è ancora viva in chi resta, non si deve temere la morte.

Uno di questi esempi da “manuale”, reputato degno di essere ricordato sia per le virtù militari sia per quelle civili è descritto da Publio Cornelio Tacito (55 ca. – 117-120 ca.; storico, oratore e senatore romano, ritenuto il più grande esponente del genere storiografico della letteratura latina) nella sua De vita et moribus Iulii Agricolae (“Vita e costumi di Giulio Agricola”, indicata solitamente come “Agricola”; scritta attorno al 98 d.C., in seguito alla morte dell’imperatore Domiziano). In pratica, Tacito racconta nel suo scritto, la vita di suo suocero, Gneo Giulio Agricola (40 – 93; politico, militare e generale romano), governatore della Britannia, nonché uomo giusto e grande anima, che si è guadagnato l’immortalità, perché ciò che ha fatto in vita “rimarrà fermo nell’animo degli uomini per sempre”.

Nonostante le rassicurazioni di Virgilio e di Tacito o la convinzione di una possibile immortalità dell’anima, c’è chi nutre ancora una profonda paura per la morte, al punto di scegliere una soluzione drastica: suicidarsi.
Epicureo (341 a.C. – 270 a.C.; filosofo greco antico) nella “Lettera a Meneceo”, nota anche come, “Lettera sulla felicità”, ci dà il suo punto di vista sulla cosa: “perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso”. Quindi, la morte è temuta solo perché è incerto il momento in cui arriverà, ma “il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere”.

Gli stoici dal canto loro si liberano dalla paura della morte con una preparazione a essa (meditatio mortis) e attraverso le parole di Seneca (4 a.C. – 65), nelle “Lettere a Lucilio”, apprendiamo che la morte non è da considerarsi “uno scoglio, mentre è un porto, delle volte da cercare, ma mai da rifuggire, nel quale se qualcuno è spinto nei primi anni [di vita], non deve lamentarsi più di chi ha navigato velocemente”.

Per cui la morte è un processo graduale e naturale. Ogni giorno si muore un po’, ma ciò che conta è saper usare bene il tempo, unica cosa che ci appartiene davvero. Quindi, da questo punto di vista, la vita non è lunga e neppure breve, ma giusta.

In copertina: “Vanitas Natura morta con libri, un globo, un teschio, un violino e un ventaglio” di Jan Davidsz. de Heem (1650)

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