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Letteratura e morte: la visione degli antichi, accettazione e sfida #2

Per affrontare con serenità la morte, secondo la ricetta degli antichi, basta inquadrarla come un frammento insignificante, un punto in mezzo all’infinito oppure, al contrario, si può scegliere di sfidarla a viso aperto.

Per affrontare con serenità la morte, secondo la ricetta degli antichi, basta inquadrarla come un frammento insignificante, un punto in mezzo all’infinito oppure, al contrario, si può scegliere di sfidarla a viso aperto.

Secondo Leonida di Taranto (330 o 320 a.C. – 260 a.C. circa; poeta greco antico, ritenuto il maggiore esponente della scuola dorico-peloponnesiaca) la “cura” per affrontare la morte è non legarsi alla vita. È valutare che il tempo trascorso prima della nascita e quello che verrà dopo la morte è infinito, mentre la vita umana, oltre a essere sgradevole è anche breve, ha la durata di un istante e le dimensioni infinitesimali di un punto o forse di qualcosa ancora più piccolo e trascurabile.

Infinito fu il tempo, uomo, prima
che tu venissi alla luce, e infinito
sarà quello dell’Ade. E quale parte
di vita qui ti spetta, se non quanto
un punto, o, se c’è qualcosa più piccola
d’un punto? Così breve la tua vita
e chiusa, e poi non solo non è lieta
ma assai più triste dell’odiosa morte.

(epigrammi di Leonida di Taranto, tratto dalla “Antologia Palatina”)

Inoltre, il poeta nota che la morte è già anticipata dal decadimento che è parte del percorso vitale e che rappresenta un avvertimento per gli uomini, e li spinge a riflettere sulla precarietà dell’esistenza rispetto all’eternità.

Con una simile struttura d’ossa
tenti di sollevarti tra le nubi
nell’aria! Tu vedi, uomo, come tutto
è vano: all’estremo del filo, già
c’è un verme sulla trama non tessuta
della spola. Il tuo scheletro è più tetro
di quello d’un ragno. Ma tu, che giorno
dopo giorno cerchi in te stesso, vivi
con lievi pensieri, e ricorda solo
di che paglia sei fatto.

(epigrammi di Leonida di Taranto, tratto dalla “Antologia Palatina”)

Nelle letterature classiche ci sono numerosi esempi di poesia sepolcrale dedicata in particolare alle morti immature.
Marco Valerio Marziale (38 o 41 – 104; poeta romano, comunemente considerato il più importante epigrammista in lingua latina), ad esempio, ha scritto tra gli altri, versi che trasmettono un grande dolore, per la morte di una giovanissima serva, Erotion, nata in casa del poeta e deceduta all’improvviso all’età di soli sei anni.

Le sue molli ossa la dura zolla non copra, né a lei, o terra, tu sia grave: non lo fu essa a te. (Epigrammi di Marco Valerio Marziale)

Nei confronti della morte c’è anche chi si pone con un atteggiamento di sfida, nell’intento di precedere la propria sorte. Gli autori antichi celebrano questo tipo di scelta che spesso è attuata da esseri umani molto giovani.

Marco Anneo Lucano (39 – 65; poeta latino) a questo proposito, riporta come Floro, Tito Livio e Quintiliano la storia, ripresa da Cesare, della sconfitta di Gaio Volteio Capitone (… – 49 a.C.), il centurione romano coinvolto nella guerra civile, nel luglio del 49 a.C., tra Cesare e Pompeo, che si concluderà con la sua morte.

Durante gli scontri, un reparto di soldati rimase bloccato su un’isola della costa dalmata, circondata dai nemici. I cesariani tentarono la fuga, ma solo alcuni di loro riuscirono nell’intento. Un gruppo, quello al comando di Capitone, fu bloccato e accerchiato dagli avversari.
Durante la notte, Capitone esortò i suoi a morire piuttosto che cedere alle promesse del nemico che aveva garantito loro la salvezza della vita se si fossero arresi.
I soldati combatterono valorosamente e quando fu chiaro che non avrebbero vinto, buona parte di essi si uccisero tra loro, suscitando negli avversari un profondo rispetto e ammirazione per il loro eroismo.

Questo gesto estremo è celebrato da Lucano con parole di fuoco nel suo poema epico “Farsaglia” (Pharsalia, noto anche come “De bello civili” o “Bellum civile”).

O giovani, abbiamo una sola notte di libertà, e per di più di scarsa durata: prendete, in così poco tempo, le decisioni estreme. Nessuno dispone di una vita breve, se in essa ha il tempo di scegliersi la morte, né inferiore è la gloria dell’olocausto supremo, o giovani, se affronterete con decisione il fato che incombe su di voi: dal momento che tutti gli uomini ignorano quel che li attende, è identico motivo di lode per l’animo sia perdere gli anni di vita sperati sia affrettare la fine nel momento estremo, purché sia la nostra iniziativa ad accelerare il destino: nessuno è costretto a voler morire.

Nella letteratura antica ci sono diversi esempi di sucidi eroici, commessi per i più svariati motivi. Didone, figura femminile che appartiene alla mitologia classica, ad esempio, si uccise per amore. Secondo Publio Virgilio Marone (70 a.C. – 19 a.C.; poeta romano, autore di tre opere, tra le più note e influenti della letteratura latina), la fondatrice e prima regina di Cartagine (odierna Tunisi) si innamorò dell’eroe troiano Enea, i due ebbero una relazione e lui, a un certo punto, fu costretto ad abbandonarla. Didone, disperata per la sua improvvisa partenza, si uccise con la spada donatale dall’amante, chiedendo al suo popolo di vendicarla.

Oppure c’è chi si suicida per l’onore, come nella tragedia “Aiace” di Sofocle (496 a.C. – 406 a.C.; drammaturgo greco antico, ritenuto con Eschilo ed Euripide, uno dei maggiori poeti tragici dell’antica Grecia). Dove, Aiace Telamonio, personaggio della mitologia greca, impazzito a causa di un incantesimo di Atena, si lancia contro un gregge di pecore e le massacra, credendo di uccidere gli Atridi, cioè Agamennone e Menelao. Recuperata la ragione, scopre di essere coperto di sangue e realizza ciò che ha fatto. Perso l’onore, sceglie di suicidarsi invece di vivere nella vergogna, così si uccide con la spada che Ettore gli aveva donato al termine del loro duello.

Volere una vita troppo lunga è vergogna quando non c’è nessuna speranza di cambiare la sciagura. Che piacere ha in sé il giorno che si aggiunge a un altro giorno, che avvicina e ritarda la morte? Non stimo niente un uomo che si accende di vane speranze. Chi è nato nobile deve vivere bene o morire bene; questo è tutto.
Ma non serve continuare a lamentarsi invano; è il momento di agire, e presto.
O morte, morte, vieni, guardami!

(tratto da “Aiace” di Sofocle)

Esistono negli esempi degli antichi anche numerose morti illustri, dove brilla la fermezza dimostrata nell’affrontare situazioni difficili da parte sia di uomini passati alla storia sia di semplici cittadini.
Le virtù eroiche sono state celebrate in pagine memorabili, come quelle vergate da Publio Cornelio Tacito (55 ca. – 117-120 ca.; storico, oratore e senatore romano, ritenuto il più grande esponente del genere storiografico della letteratura latina) che, nei suoi “Annales”, descrive le morti di congiurati effettivi o presunti e anche di uomini semplicemente invisi a Nerone, che furono uccisi o costretti a uccidersi. Tra questi ricordiamo: Seneca, Lucano, Petronio e molti altri.

Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65; filosofo, drammaturgo e politico napoletano, tra i massimi esponenti dello stoicismo eclettico di età imperiale) anche di fronte alla morte mantenne il contegno di uno stoico. Egli osservò i criteri che in vita aveva raccomandato, confortando gli amici piangenti ed esortandoli alla fermezza di fronte alle difficoltà.

Gaio Petronio Arbitro (27 – 66; scrittore e politico romano del I secolo, celebre durante il principato di Nerone e presunto autore del Satyricon), invece, scelse di andarsene così come aveva vissuto. Non fece discorsi elevati e neppure gesti sensazionali che potessero essere ricordati dai posteri. Decise di trascorrere il suo ultimo giorno come aveva passato tutti gli altri: si sedette al banchetto e attese l’abbraccio della morte, affinché il suo decesso apparisse come una mera casualità.

Una donna, Epicari, una liberta (schiava liberata dalla condizione di schiavitù, di solito tramite mezzi legali) che partecipò alla congiura pisoniana contro Nerone, si distingue in questi resoconti eroici di morte. Sottoposta a tortura non rivelò i nomi degli altri congiurati e si tolse la vita, infilando il collo in un laccio da lei predisposto allo scopo. Il suo gesto è ancor più ammirevole, in quanto a differenza di lei, che oltretutto era una donna, senatori, uomini liberi, cavalieri romani si erano risolti in fretta a vendere chiunque pur di salvarsi la vita.

Tra gli antichi, c’è anche chi crede che dopo la morte sussistano ancora differenze sociali tra gli uomini, ma di questa singolare stoltezza parleremo in un prossimo post.

In copertina: Aiace Telamonio si prepara al suicidio. Riproduzione dell’illustrazione di un’antica anfora greca a figure nere, raffigurazione di Exekias (530-525 a.C.)

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