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Hans Holbein il Giovane e il crudo realismo del suo “Cristo morto”

Hans Holbein fu ritenuto il supremo rappresentante dell’arte riformata tedesca. Il suo “Cristo morto” è un esempio calzante del crudo realismo misto a pietà, tipico del suo periodo e dell’area geografica da cui proveniva.

Hans Holbein fu ritenuto il supremo rappresentante dell’arte riformata tedesca. Il suo “Cristo morto” è un esempio calzante del crudo realismo misto a pietà, tipico del suo periodo e dell’area geografica da cui proveniva.

Hans Holbein il Giovane (Augusta, 1497 o 1498 – Londra, 7 ottobre 1543) fu un pittore e incisore tedesco.
In gioventù lavoro principalmente a Basilea, poi si trasferì in Inghilterra, alla corte di Enrico VIII (1491 – 1547).
I suoi dipinti trattavano vari generi, dal religioso al satirico, ma fu noto anche come ritrattista. Si distinse anche nell’arte della riforma protestante, nonostante il suo rapporto con la religione fosse piuttosto ambiguo.

Agli esordi, si dedicò agli affreschi e a opere a sfondo religioso; fece anche dei ritratti che gli garantirono una certa notorietà. Successivamente, quando la Riforma protestante giunse a Basilea, Holbein produsse opere sia per i clienti riformati sia per i protettori religiosi tradizionali.
Per quanto riguarda il suo stile pittorico, esso scaturì dalla fusione tra la sua formazione tardogotica, le successive contaminazioni artistiche provenienti dall’Italia, dalla Francia e dai Paesi Bassi, e certi elementi tipici dell’umanesimo.

Nel 1526, Holbein si trasferì in Inghilterra, dove fu accettato nella cerchia degli umanisti di Tommaso Moro (1478 – 1535, scrittore e politico cattolico inglese); rimase qui a lavorare per quattro anni e ottenne una notevole visibilità. Tornò per un periodo a Basilea, poi, nel 1532, lo troviamo di nuovo in Inghilterra, dove dal 1535, diventò pittore di re Enrico VIII d’Inghilterra, per il quale realizzo ritratti e molti disegni.

Holbein era dotato di una grande versatilità e si distinse per il realismo e la precisione che contraddistinguevano le sue opere. Nei suoi dipinti si possono cogliere allusioni, simbolismi e paradossi, mentre i suoi ritratti restano tuttora incomparabili, per la loro capacità di penetrare il personaggio.

Per quanto riguarda il periodo di formazione artistica, Holbein apprese il mestiere ad Augusta, nella bottega di suo padre, Hans Holbein il Vecchio (1460 – 1524), pittore famoso per i suoi ritratti e per i suoi soggetti religiosi.
Ad Augusta giungevano influssi del Rinascimento italiano, mentre a Basilea, quando il pittore vi si trasferì per il suo apprendistato da Hans Herbst (1470 – 1552, considerato il più importante pittore di Basilea prima di Holbein, la sua intera opera religiosa andò perduta nell’iconoclastia basilese), lo stile predominante era quello tardogotico, che poneva l’accento sul realismo e sull’esaltazione delle linee, aspetti questi che lasceranno un segno costante nelle opere di Holbein.

Nei suoi anni in Svizzera, l’artista, che forse nello stesso periodo si spinse anche in Italia, incluse nel suo vocabolario espressivo anche caratteristiche dello stile italiano, come: lo sfumato di Leonardo da Vinci (1452 – 1519); l’arte della prospettiva basata su un unico punto e l’utilizzo di forme architettoniche, che probabilmente trasse dalle opere di Andrea Mantegna (1431 – 1506).
Nonostante gli influssi esterni, l’arte di Holbein resta comunque saldamente ancorata al territorio nordico e alla tradizione gotica.

Holbein come suo padre e altri artisti dell’epoca si guadagnava da vivere soprattutto grazie alle commissioni in ambito religioso. La chiesa, alla fine del Quattrocento, restava per lo più medievale nelle sue tradizioni e in particolare, la chiesa tedesca e svizzera manteneva forti collegamenti con Roma, così come erano ancora ferventi i pellegrinaggi, le preghiere per i defunti e il culto delle reliquie. L’artista nei suoi primi dipinti resta legato a questa cultura, anche se, con l’avanzata del movimento riformista, iniziò a modificare le sue inclinazioni religiose.

Questo graduale passaggio si riscontra in diverse opere di Holbein che, tra il 1520 e il 1526, dipinse diverse opere di carattere religioso, tanto da essere definito “il supremo rappresentante dell’arte riformata tedesca”. Tra queste ricordiamo: “Il Corpo di Cristo morto nella tomba”, del 1521, dove l’artista manifesta una visione umanista del Cristo, perfettamente in linea con il clima riformista della città di Basilea in quel periodo; “La Danza della Morte” (1523-26), dove è richiamata l’allegoria tardomedievale della Danza macabra come satira riformista.

Per quanto riguarda “Il corpo di Cristo morto nella tomba”, si ipotizza fosse la predella di un quadro d’altare più grande o magari la decorazione prevista per un sepolcro.
Holbein decise di rappresentare la figura del Cristo prima della resurrezione, con crudo realismo, al punto che viso, mani e piedi sono raffigurati già in un primo stadio di putrefazione.
Il corpo, disteso su un basamento ricoperto da un telo con dei drappeggi accennati, è smagrito, mentre la bocca e gli occhi sono semiaperti. Inoltre, il pittore ha mostrato in modo ben visibile tre ferite che furono inflitte al Cristo durante la crocefissione: al fianco, da una lancia; alla mano e a un piede, dai chiodi usati per crocefiggerlo.

La figura è dipinta di profilo; il capo è lievemente piegato verso lo spettatore; i capelli sono sparsi sul telo, mentre il braccio destro è posto lungo il corpo.
Dal volto del Cristo, di un pallore cinereo, trasuda dolore, lo sguardo è fisso nel vuoto.
Holbein ha scelto una rappresentazione minimalista che accentua in modo drammatico l’espressività di quest’opera. L’artista non ha tralasciato alcuna delle brutalità che il corpo del Cristo ha dovuto subire e il minimalismo, privo dell’enfasi presente nei canonici ritratti del Cristo morto, serve a mostrare la profonda umanità di Cristo e a evidenziare in modo impietoso la fine del nostro viaggio sulla terra.

Oltre al realismo, la forte impressione che suscita il dipinto nell’osservatore è dovuta anche alle dimensioni realistiche (30.5 cm x 200 cm) della raffigurazione e al fatto che l’artista ha usato come modello, per dipingere il figlio di Dio, un morto affogato che era stato ripescato nel Reno.

In quanto alle fonti cui poteva essersi ispirato Holbein per questo dipinto, oltre a subire il fascino del macabro, come molti altri artisti dei primi anni della riforma protestante, quasi certamente, il padre di Holbein, condusse suo figlio nella chiesa di Issenheim, a vedere la “Crocifissione” di Matthias Grünewald (1480 ca. – 1528, tra i più importanti e originali pittori tedeschi, famoso per la drammaticità visionaria con cui rappresentò temi di carattere religioso).
Quello che trapelava dagli esempi di artisti di quell’area e di quel periodo era un insieme di crudo realismo e pietà, finalizzati a far riflettere sul significato delle opere e a provare un senso di colpa.

Il Cristo morto di Hans Holbein ha colpito molti di quelli che si sono soffermati a osservarlo, uno tra questi, che ne fu profondamente scosso, è lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij che aveva visto il quadro durante un viaggio in Svizzera, e ne fu talmente impressionato, da citarlo in più punti del suo romanzo, “L’idiota”.
In una parte, soprattutto, attraverso le parole messe in bocca a Ippolit, un personaggio secondario, possiamo sia afferrare l’effetto terribile che il quadro produsse sullo scrittore sia ricostruire mentalmente il dipinto, come se, leggendo, potessimo toccare con mano tutta la sofferenza espressa dal pittore:
si trattava di un Cristo deposto dalla croce. Normalmente, gli artisti che affrontano questo soggetto fanno in modo di dare a Cristo un viso bellissimo: un viso che gli orrendi supplizi non sono riusciti a deformare. Invece, nel quadro di Rogožin, si vede il cadavere di un uomo che è stato straziato prima di essere crocifisso, un uomo percosso dalle guardie e dalla folla, che è stramazzato sotto il peso della croce e che ha sofferto per sei ore […] prima di morire. Il viso dipinto in quel quadro è proprio quello di un uomo appena tolto dalla croce; non è irrigidito dalla morte ma è ancora caldo e, starei per dire, vitale. La sua espressione è quella di chi sta ancora sentendo il dolore patito. Un viso di un realismo spietato. Io so che, secondo la Chiesa, fin dai primi secoli, Cristo, fattosi uomo, soffrì realmente come un uomo e che il suo corpo fu soggetto a tutte le leggi della natura. Il viso del quadro è gonfio e sanguinolento; gli occhi dilatati e vitrei. Ma, nel contemplarlo, si pensa: «Se gli Apostoli, le donne che stavano presso la croce, i fedeli, gli adoratori e tutti gli altri videro il corpo di Cristo in quello stato, come poterono credere all’imminente resurrezione?” (Fëdor M. Dostoevskij, “L’idiota”, Newton Compton Editori)

In copertina: Il corpo del Cristo morto nella tomba e un particolare; olio e tempera su tiglio (Kunstmuseum Basel)

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