“Ode on a Grecian Urn” (Ode su un’urna greca) è una poesia del poeta romantico inglese John Keats. Scritta nel maggio 1819, fu pubblicata per la prima volta nel 1820, in forma anonima, nella rivista “Annals of the Fine Arts” (Annali delle Belle Arti) che promuoveva idee condivise dal poeta.
John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio 1821) è stato un poeta britannico, considerato uno dei più importanti letterati del Romanticismo, nonché uno dei maggiori esponenti della “seconda generazione romantica” inglese insieme a Lord Byron e Percy Bysshe Shelley, anche lui deceduto in giovane età.
L’ode su un’urna greca fa parte delle “Grandi odi del 1819”, che comprendono anche: “Inno all’indolenza”; “Inno alla malinconia”; “Inno a un usignolo”; “Inno alla psiche”.
Il poeta ha ritenuto le forme esistenti nella poesia della sua epoca inadatte al suo obiettivo, quindi, in questa raccolta ha presentato un nuovo sviluppo della forma dell’ode.
In queste odi, Keats esplora le sue contemplazioni sulle relazioni tra anima, natura, eternità e arte.
L’idea di utilizzare l’arte greca classica come metafora nasce dalla lettura di due articoli pubblicati sulla rivista “Examiner” (Esaminatore) di Benjamin Haydon (1786 – Londra; artista e scrittore inglese) del 2 e del 9 maggio 1819.
Nel primo articolo, Haydon descriveva il sacrificio e l’adorazione greca; nel secondo confrontava lo stile pittorico di Raffaello con quello di Michelangelo, contestualmente a una discussione sulle sculture medievali.
Keats conosceva i marmi di Elgin e poté consultare anche delle stampe di urne greche, nell’ufficio di Haydon; tracciò persino un’incisione del “Vaso di Sosibios”, conservato al Louvre, un cratere a volute di marmo neoattico, che reca la firma “Sosibios”.
Di solito le urne neoattiche presentavano un’unica scena che girava attorno al vaso, mentre il poeta nella sua ode fa riferimento a due scene distinte, perché ciò che descrive è pura invenzione, ispirata dalle varie conoscenze che aveva acquisito sull’arte greca.
L’ode su un’urna greca è strutturata in cinque stanze di dieci versi ciascuna.
Il poeta si rivolge all’antica urna, la descrive e poi disquisisce sulle immagini raffigurate sulla sua superficie.
In particolare, ci parla di due scene: una in cui un amante insegue la sua amata; un’altra in cui gli abitanti del villaggio e un sacerdote si riuniscono per compiere un sacrificio.
Il poeta sostiene nella conclusione dell’ode che l’urna dirà alle future generazioni dell’umanità: “La bellezza è verità, verità bellezza – questo è tutto / Voi conoscete sulla terra, e tutto ciò che dovete sapere“.
Nel 1819, Keats aveva tentato in principio la strada dei sonetti, ma comprese che quel tipo di forma non si adeguava al suo scopo: lo schema della rima lavorava contro il tono che voleva ottenere. Decise così di utilizzare la forma dell’ode, ma la forma pindarica (ode pindarica: componimento poetico tipico dei secc. XVI e XVII, di argomento civile) standard, impiegata da poeti come John Dryden (1631 – 1700; poeta, drammaturgo, critico letterario e traduttore inglese), non funzionava per discutere la filosofia. Così, il poeta sviluppò il suo tipo di ode in “Ode to Psyche” e in altri odi del 1819, prima di scrivere “Ode su un’urna greca”.
Keats riuscì a creare un nuovo tono poetico, in armonia con le sue idee estetiche sulla poesia. Inoltre, è riuscito a modificare ulteriormente questa nuova forma, aggiungendo una voce secondaria dentro l’ode, dando vita così a un dialogo tra due soggetti.
Il poeta impiega la tecnica dell’ekphrasis (o ecfrasi termine di derivazione greca, indica la descrizione verbale di un’opera d’arte visiva, come un quadro, una scultura o un’opera architettonica), ma non lo fa nel modo tradizionale. Infatti, invece di descrivere le azioni esordisce con una serie di domande e concentra la sua attenzione unicamente sugli attributi esterni dei personaggi.
Per quanto riguarda la struttura, l’Ode su un’urna greca è organizzata in strofe di dieci versi che iniziano con uno schema di rime ABAB e terminano con un sestetto miltonico (prima e quinta strofa CDEDCE, seconda strofa CDECED, terza e quarta strofa CDECDE, dal poeta John Milton, 1608 – 1674).
Lo stesso schema generale è usato nell’ “Ode all’indolenza”, nell’ “Ode alla malinconia” e nell’ “Ode all’usignolo” (anche se i loro schemi di rima in sestetto variano), ciò unisce queste poesie dal punto di vista della struttura e del tema.
Il termine “ode” è anche esso di derivazione greca, significa: “cantata”.
Gli scrittori di odi dell’antichità si attenevano a schemi rigidi: strofa, antistrofa ed epodo. Invece, all’epoca di Keats tale forma aveva subìto una trasformazione tale da rappresentare un modo piuttosto che un metodo fisso per scrivere un certo tipo di poesia lirica.
Le odi di Keats cercano di raggiungere un “equilibrio classico” tra due estremi. Nella struttura dell’ “Ode su un’urna greca” sono la struttura simmetrica della letteratura classica e l’asimmetria della poesia romantica.
Lo notiamo già nel modo in cui il poeta ha concepito le strofe: nei versi iniziali di ogni strofa usa lo schema ABAB, chiaro esempio di struttura derivante dalla letteratura classica, mentre i restanti sei versi sembrano liberarsi dagli stili poetici tradizionali delle odi greche e romane.
Anche il metro di Keats mostra un’evoluzione consapevole del suo stile poetico, mentre la scelta delle parole rappresenta un passaggio dalla sua precedente dipendenza dalle parole polisillabiche latine a parole germaniche più brevi.
Il poeta fa anche un uso complesso dell’assonanza che oltretutto compare molto raramente nelle poesie inglesi; un esempio nell’ Ode su un’urna greca, lo troviamo al verso 13 (“Not to the sensual ear, but, more endear’d“) dove la “e” di “sensual” si collega alla “e” di “endear’d” e la “ea” di “ear” si collega alla “ea” di “endear’d“.
Nonostante le notevoli e interessanti novità riscontrabili nell’Ode su un’urna greca, essa non fu accolta positivamente dalla critica contemporanea. Solo verso la metà dell’Ottocento ne fu compreso il valore e attualmente, è ritenuta una delle più grandi odi in lingua inglese.
I
Tu, ancora inviolata sposa della quiete,
Figlia adottiva del tempo lento e del silenzio,
Narratrice silvana, tu che una favola fiorita
Racconti, più dolce dei miei versi,
Quale intarsiata leggenda di foglie pervade
La tua forma, sono dei o mortali,
O entrambi, insieme, a Tempo o in Arcadia?
E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose?
Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata?
E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia?
II
Sì, le melodie ascoltate sono dolci; ma più dolci
Ancora sono quelle inascoltate. Su, flauti lievi,
Continuate, ma non per l’udito; preziosamente
Suonate per lo spirito arie senza suono.
E tu, giovane, bello, non potrai mai finire
Il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli;
E tu, amante audace, non potrai mai baciare
Lei che ti è così vicino; ma non lamentarti
Se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire,
E tu l’amerai per sempre, per sempre così bella.
III
Ah, rami felici! Non saranno mai sparse
Le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera;
E felice anche te, musico mai stanco,
Che sempre e sempre nuovi canti avrai;
Ma più felice te, amore più felice,
Per sempre caldo e ancora da godere,
Per sempre ansimante, giovane in eterno,
Superiori siete a ogni vivente passione umana
Che il cuore addolorato lascia e sazio,
La fronte in fiamme, secca la lingua.
IV
E chi siete voi, che andate al sacrificio?
Verso quale verde altare, sacerdote misterioso,
Conduci la giovenca muggente, i fianchi
Morbidi coperti da ghirlande?
E quale paese sul mare, o sul fiume,
O inerpicato tra la pace dei monti
Hai mai lasciato questa gente in questo sacro mattino?
Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre,
E mai nessuno tornerà a dire
Perché sei stato abbandonato.
V
Oh, forma attica! Posa leggiadra! Con un ricamo
D’uomini e fanciulle nel marmo,
Coi rami della foresta e le erbe calpestate.
Tu, forma silenziosa, come l’eternità
Tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale!
Quando l’età avrà devastato questa generazione,
Ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori
Non più nostri, amica all’uomo, cui dirai
“Bellezza è verità, verità bellezza”, questo solo
Sulla terra sapete, ed è quanto basta.
In copertina: da sinistra “Immagine di John Keats” e “L’urna di Keats in un disegno del 1819”