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Cesare Pavese: “per tutti la morte ha uno sguardo”

Pavese scrisse la poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” pochi mesi prima di togliersi la vita. Nei versi, il ricordo di un amore infelice si fonde con il suo male di vivere.

Pavese scrisse la poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” pochi mesi prima di togliersi la vita. Nei versi, il ricordo di un amore infelice si fonde con il suo male di vivere.

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950), scrittore, poeta, traduttore e critico letterario italiano, il 17 agosto 1950, scrisse sul suo diario (“Il mestiere di vivere”, pubblicato postumo nel 1952): “Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò”; il 18 agosto, invece, chiuse il diario scrivendo: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.
Parole che anticipano la decisione drastica che lo scrittore prese il 27 di agosto, quando pose fine alla sua vita, in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino.

La motivazione che spinse Pavese al suicido fu, probabilmente, il suo profondo disagio esistenziale, mentre la causa occasionale fu la delusione amorosa con l’attrice statunitense Constance Dowling (1920-1969).

A trovare il corpo di Pavese esanime fu il padrone dell’albergo Roma, che decise di sfondare la porta della stanza 346, dopo aver inutilmente tentato di farsi aprire con insistenti colpi all’uscio. Quando fu nella stanza, gli si parò innanzi l’uomo, disteso su un letto disfatto, delle bustine di sonnifero e, sul comodino, il libro che lo scrittore amava di più, “I dialoghi con Leucò”. Sulla prima pagina del libro, Pavese aveva scritto: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

Dentro il libro poi, c’era un foglietto, con tre frasi di pugno dello scrittore: una citazione dal libro, “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”, un’altra citazione tratta dal proprio diario, “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”, e infine, “Ho cercato me stesso”.

Pochi giorni dopo la sua morte si celebrarono i funerali civili. Non ci furono commemorazioni religiose, dato che l’autore era suicida e ateo.
Sino al 2002, Pavese rimase nel Cimitero monumentale di Torino, poi, per volontà della famiglia, fu trasferito al cimitero di Santo Stefano Belbo.

La storia di Cesare Pavese con Constance Dowling ebbe inizio con un incontro fortuito a Roma, una sera di Capodanno del 1949, a casa di amici. L’attrice era in Italia insieme alla sorella Doris.
Pavese si innamorò immediatamente della bella attrice, venuta a Roma per tentare la fortuna nel cinema italiano, ma rimase deluso dalla città e decise di tornare a Torino, dove il destino gli fece rincontrare Constance e dove ebbe inizio un’intensa ma brevissima storia d’amore. L’attrice ripartì, infatti, molto presto per Roma; Pavese le scrisse molte lettere, ma lei non gli rispose mai. Infine, lei tornò a Hollywood, lasciando affranto e disperato lo scrittore.

La loro relazione fu breve e si concluse tristemente, e senza spiegazioni. Solo più tardi, lo scrittore scoprì la relazione tra Constance e Andrea Checchi, un attore conosciuto durante le riprese del suo ultimo film, e capì perché lei non avesse mai risposto alle sue lettere.

Lo scrittore in questo periodo mise mano con urgenza alle sue ultime poesie, tra cui “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, quasi un manifesto del suo male di vivere, del suo senso di solitudine e una sorta di dedica amara all’irraggiungibile donna amata.

Secondo Pavese, per tutti la morte ha uno sguardo, per lui, è quello di Constance.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, era il titolo della poesia dedicata all’attrice americana, che dava anche il titolo alla raccolta omonima nella quale fu inserita e pubblicata nel 1951.
Il tema è ovviamente un amore deluso e il dolore causato da una breve quanto infelice relazione.

La raccolta include dieci componimenti, otto in italiano e due in inglese. Le poesie rientrano in un periodo compreso tra l’11 marzo e il 10 aprile del 1950 e furono rinvenute tra le carte dell’autore, dopo la sua morte. Sono essenzialmente liriche d’amore pervase da una struggente nostalgia e scritte con uno stile insolito per Pavese.

Analizzando la poesia, comprendiamo che, per lo scrittore la morte è una presenza costante che accompagna fedelmente le nostre giornate e può essere insensibile e sorda; può assume le sembianze di un vecchio rimorso o di un’abitudine irrazionale.
Pavese individua anche un’equivalenza tra amore e morte, una tematica certamente non originale, in quanto già ampiamente presente nella tradizione poetica precedente.

Nella raccolta poetica “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, lo scrittore applica un metro più severo che contrasta con il tono disteso della raccolta “Lavorare stanca”. Il ritmo si fa più serrato, seguendo il senso delle parole che indicano che non c’è sollievo al dolore, né possibile cura per le ferite dell’anima. L’unica certezza è l’attesa della morte e fissando i suoi occhi si scoprirà che il suo sguardo è quello della donna amata.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti
.

La poesia si compone di due strofe libere di diciannove versi novenari.
Nella prima strofa si individuano varie letture della morte: presenza costante nella vita; ospite indesiderato del quale non ci si può liberare, perché si insinua lungo tutto il percorso esistenziale.
La morte o meglio il suo pensiero non dà tregua, incide ogni consuetudine vitale. E gli occhi della donna amata sono il mezzo attraverso cui essa giungerà a noi e sarà una morte non solo fisica, ma anche spirituale.

Nella seconda strofa si ripresentano i temi della prima, ma estesi all’umanità intera: “per tutti la morte ha uno sguardo” (v. 13) e tutti “scenderemo nel gorgo muti” (v. 19).

Nella poesia, Pavese contrappone due sensi, quello della vista e quello dell’udito.
Occhi, mondo degli sguardi, comunicazione non verbale da un lato; orecchie sorde, silenzio profondo, grida mute e labbra sigillate dall’altro. Ciò che emerge in questa contrapposizione è l’impossibilità di comunicare, tema tipico della letteratura novecentesca.

Tutte e due le strofe terminano con un’altra estensione della morte: la speranza.
Nella prima strofa, Pavese illustra come la speranza, che dà la vita, è solo un’illusione. Nella seconda, illustra l’inesorabilità della solitudine e dell’oblio.

Scorrendo i versi di questa poesia di Pavese, che parlano di morte, fanno riferimento all’immagine dell’amata e illustrano una vacua speranza, è impossibile non denotare il richiamo ai versi immortali di “A Silvia” di Giacomo Leopardi.

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