La morte è uno dei temi ricorrenti della letteratura, solitamente investito di numerosi significati e a cui sono accreditati svariati valori simbolici e morali, provenienti sia dall’ambito culturale sia da quello sociale.
L’argomento fu trattato già nell’antichità e negli scritti di Seneca possiamo iniziare a esplorare le prime risposte degli uomini all’interrogativo aperto che reca con sé la morte e ciò che ci aspetta oltre la soglia della vita.
Di morte si parla così ampiamente per numerosi motivi: per fornire all’uomo la possibilità di convivere con questo inevitabile accadimento; per offrire a tale evento una veste più accettabile e comprensibile; per dare sfogo all’angoscia che al suo nome si accompagna; per garantire un significato, un senso alla vita di cui la morte costituisce l’ultimo inesorabile passo.
La morte sfugge alla nostra comprensione. Il suo solo pensiero basta a sommergerci; incombe su di noi, ci incalza e ci soggioga. La temiamo e per questo schiacciati dalla sua presenza, seppure astratta, nella quotidianità, cerchiamo di relegarla ai margini della coscienza. Eppure, la letteratura, dagli esempi più antichi sino a quelli contemporanei, le ha dedicato pagine indimenticabili.
La morte occupa un ruolo di primo piano nella letteratura, in quanto ultimo accadimento dell’esperienza vitale ed evento che focalizza su di sé tutte le paure più profonde dell’uomo che, dalla notte dei tempi, si chiede che cosa ci sia dopo questo salto nel buio: il nulla forse o magari, la luce della divinità.
Nella finzione letteraria, ciò che viene analizzato è soprattutto il sentimento della morte che coinvolge maggiormente il lettore, se si presenta nella sua più totale veridicità e drammaticità.
Per aumentare il senso di partecipazione, in letteratura, il sentimento della morte è espresso attraverso lo stesso soggetto che la sta vivendo, costringendo chi legge a sperimentare in prima persona le angosce e i pensieri del personaggio.
Nella letteratura, è facile per la morte trovare un notevole spazio di indagine e di rivelazione, in quanto la parola letteraria racchiude fantasia, angoscia, mistero, ma anche rivelazione e avvicinamento alla verità.
La letteratura in molti casi ha utilizzato la morte, un tema con il quale dialogare e anche interessante da rappresentare, in varie vesti, come viaggio, scoperta o incontro.
Il viaggio, ad esempio, può essere quello di Enea che si avventura nel regno dei morti per ritrovare suo padre Anchise.
Nel mito, quindi, la morte muta in rinascita; mediante la religiosità non rappresenta più la fine di tutto, ma è l’inizio di un nuovo viaggio.
Il conflitto vita, tempo e morte vive da sempre nelle coscienze alla ricerca di risposte che nella letteratura assumono sfumature diverse. Nel mito, ad esempio, la morte ha un’identità laica, come in Omero, mentre nella Bibbia si cala in un’identità cristiana.
Sono vari anche gli antidoti alla morte che l’antichità mette in atto. Ad esempio, la si può superare grazie a una vita esemplare, affinché le generazioni future ne conservino memoria oppure si può evitare la vecchiaia, morendo nel fiore degli anni, al massimo del vigore fisico e ci si consolerà con le parole di Menandro (342 a.C. circa – 291 a.C. circa; commediografo e aforista greco antico): “muore giovane chi è caro agli dei”.
Fondamentalmente, gli antichi cercavano di dare un senso al dolore causato dalla morte che era troppo grande per essere afferrato dalla ragione, e comprendevano il legame profondo che esiste tra sacralità e sofferenza.
Si può riassumere efficacemente il loro pensiero di fronte alla morte, recuperando le affermazioni fatte da Seneca (4 a.C. – 65; filosofo, drammaturgo e politico romano) nel suo “De Consolatione Ad Marciama”. Il filosofo si rivolge a Marcia che ha perduto il giovane figlio, Metilio: “Grave est” (Cons. ad Marc. 17,1), cioè chi può negare che sia una cosa dura da affrontare? “Sed humanum est”, in pratica, la durezza della perdita non si può comprendere, se non nella generale durezza della nostra vita, che ben conosciamo.
La tendenza che ci spinge ad alleviare la sofferenza vorrebbe farci credere straordinario e non umano qualsiasi evento che provochi un grande dolore, ma in realtà, l’unico sollievo, secondo Seneca, sta nel riconoscere che la morte è parte della condizione umana.
Questo concetto in qualche modo sembra precedere l’accettazione cristiana della morte, entrambi sono comunque il traguardo di un lungo percorso culturale che ha cercato di fornire risposte a uno degli interrogativi più pressanti dell’umanità.
Anche nella “Consolatio ad Polybium”, Seneca utilizza gli stessi argomenti per consolare Polibio, liberto, molto potente, dell’imperatore Claudio, che ha perduto suo fratello. In questo caso, l’autore sottolinea: l’inutilità del compianto, la non sofferenza dei morti, il valore del ricordo e l’universale necessità della morte.
Ne “Le Epistulae morales ad Lucilium” (Lettere morali a Lucilio), Seneca, che ha scritto negli ultimi mesi della sua vita queste espistole, il cui destinatario è Lucilio Iuniore (governatore della Sicilia, poeta e scrittore), disquisisce su vari temi che costituiscono i cardini della filosofia stoica.
Secondo lui, la morte è il non essere e l’errore comune è credere che la morte venga dopo, mentre essa, come ci ha preceduti, così ci seguirà. Tutto quello che è accaduto prima di noi è morte e anche la fine della vita ha lo stesso effetto: non essere.
In altri passi, Seneca intravede una prospettiva di una vita oltre la vita. In pratica, dopo la morte, il filosofo sostiene che ci aspetta un’altra nascita e il nostro ultimo giorno di vita sarà il primo dell’eternità. In tale visione, la vita mortale è ritenuta una preparazione a un altro ordine di cose, e l’ora decisiva non sarà l’ultima per l’anima, solo per il corpo.
Ancora, in una lettera indirizzata a Marullo, in occasione della morte del suo bambino, Seneca esorta l’amico a non cedere al dolore, sostenendo che si possono perdere fisicamente coloro che amiamo, ma la buona parte di loro resta in noi. Inoltre, si deve essere consapevoli che presto raggiungeremo coloro che non ci sono già più, in quanto questo è il destino dell’essere umano, e ciò dovrebbe arrecarci una maggiore serenità.
Il senso della morte, ampliato alla condizione umana, è un pensiero fisso del poeta ellenistico Leonida di Taranto… (ma questo lo vedremo in un prossimo post)