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Larva convivialis: quando si “invitava” a cena lo scheletro

Gli antichi romani erano soliti portare a tavola un curioso quanto macabro oggetto che in latino era detto larva convivialis, uno scheletro in miniatura che fungeva da monito alla brevità e caducità della vita e invitava a godere dei piaceri terreni.

Gli antichi romani erano soliti portare a tavola un curioso quanto macabro oggetto che in latino era detto larva convivialis, uno scheletro in miniatura che fungeva da monito alla brevità e caducità della vita e invitava a godere dei piaceri terreni.

Larva convivialis era un piccolo scheletro snodabile, in effetti, in latino, la parola “larva” alludeva a un fantasma, a una maschera terrificante oppure a uno scheletro.
La larva partecipava in modo assai singolare ai sontuosi banchetti romani; realizzato in bronzo o, ancor più prezioso, in argento, aveva la funzione di “memento mori” (ricordati che devi morire), un classico monito epicureo – la filosofia epicurea nel I sec. d.C. andava molto di moda nelle classi alte della società romana – ed era condotto a tavola dalla servitù, dopo che i commensali si erano sollazzati con pietanze strepitose e si erano “rifatti gli occhi”, guardando il lussuoso arredamento della sala da pranzo.

Un esempio illuminante di come la larva convivialis fosse introdotta a mensa si riscontra in un passo del “Satyricon” di Petronio (scrittore e politico romano del I secolo), quando l’autore racconta con toni vivaci una luculliana cena a casa del liberto (persona in precedenza schiavizzata che è stata liberata dalla condizione di schiavitù) Gaio Pompeo Trimalcione Mecenaziano – un personaggio inventato, una sorta di parvenu ante litteram, dalla vita avventurosa.

Dunque, mentre noi stavamo bevendo e stavamo ammirando con grandissima attenzione quel lusso, un servo portò uno scheletro d’argento costruito così che le articolazioni e le vertebre snodate si potessero piegare in ogni parte. Avendolo gettato una prima volta e una seconda sulla tavola, e assumendo quel congegno mobile pose diverse, Trimalchione aggiunse: “Ahi! Come siamo miseri, che nullità è l’ometto! Così saremo tutti, dopo che l’Orco [Orcus: divinità infernale identificata con Plutone, cioè, metaforicamente, la morte] ci porterà via. Quindi viviamo finché è possibile stare bene”.

Il tema della paura della morte compare in vari punti dello svolgimento del banchetto, ma il momento cruciale è rappresentato da due contemporanee entreé: lo scheletro d’argento accompagnato da un vino pregiato, un Falerno centenario. Trimalcione ne spiega in modo sbrigativo il significato: finiremo tutti come quello scheletro, quindi, nel frattempo, perché non bere e darsi alla pazza gioia?

La cena di Trimalcione ricorda anche un precedente letterario dello storico Erodoto che nelle sue Storie racconta come in Egitto, durante i banchetti, si mostrasse un cadavere in legno, per ricordare agli ospiti la brevità dell’esistenza e dei suoi piaceri.

Lo scheletro “conviviale” ha origini ellenistiche – un mosaico del III secolo a.C., che raffigura uno scheletro sdraiato che gusta pane e vino è stato scoperto ad Antiochia (Turchia meridionale) – ed è stato reinterpretato molte volte nel tempo: sotto forma di scultura, in diversi mosaici e persino in alcune coppe destinate ai banchetti.

Vale la pena riflettere su una scritta incisa in delle coppe di epoca ellenistica:
Godi finché vivi, poiché il domani è incerto. La vita è una commedia, il godimento è il bene supremo, la voluttà il tesoro più prezioso: sii lieto, finché sei in vita.

Questa citazione non vi richiama forse alla memoria una celebre frase pronunciata secoli dopo da un illustre mecenate fiorentino?

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