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Kurt Cobain: la morte controversa di una leggenda del rock

L’8 aprile 1994, una radio locale di Seattle diede la tragica notizia del ritrovamento del corpo di Kurt Cobain. La morte del cantante dei Nirvana fu archiviata come suicidio, ma dubbi e incongruenze circolano tuttora attorno al suo decesso.

L’8 aprile 1994, una radio locale di Seattle diede la tragica notizia del ritrovamento del corpo di Kurt Cobain. La morte del cantante dei Nirvana fu archiviata come suicidio, ma dubbi e incongruenze circolano tuttora attorno al suo decesso.

Cobain lasciò un biglietto prima di suicidarsi, dove compare una frase, proprio prima del saluto finale, “it’s better to burn out than to fade away” (È meglio bruciare che svanire).
Si tratta di una citazione presa dal testo della canzone di Neil Young “My My, Hey Hey (Out of the Blue)“. Una sorta di dichiarazione di intenti che si adatta non solo alla vita del leader dei Nirvana, ma anche a quella di molti altri artisti che come lui hanno bruciato in fretta le tappe della loro esistenza, morendo giovani, in odore di leggenda e lasciando dietro di loro uno strascico di dubbi e confusione, soprattutto sulla loro tragica morte.

Kurt Donald Cobain, nato ad Aberdeen, il 20 febbraio 1967 e morto a Seattle, il 5 aprile 1994, è stato un cantautore e chitarrista statunitense. Fu leader dei Nirvana, una tra le band più prestigiose del cosiddetto grunge (scena musicale iniziata negli anni Ottanta, nello Stato di Washington, in particolare a Seattle), e morendo a ventisette anni, è entrato a pieno titolo nel noto quanto funesto “Club 27”.

Questo singolare club fa la sua comparsa sulla stampa a carattere musicale nel 1994 e sembra sia una conseguenza di un’affermazione fatta proprio dalla madre di Cobain: “Ora è andato e si è unito a quello stupido club. Gli avevo detto di non unirsi a quello stupido club”.
La madre di Kurt si riferiva alle tragiche morti di altri famosi artisti: Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, deceduti tra il 1969 e il 1971, anche loro all’età di 27 anni.

Diverse di queste morti sono accomunate non solo dal numero 27, ma anche dal fatto che le cause dei decessi non sono molto chiare, che gli eventi attorno alla morte di questi personaggi presentano lacune, contraddizioni, strani difetti e mancanze nelle procedure, e più di un punto oscuro.

Ripercorrendo gli ultimi mesi di vita di Kurt Cobain sappiamo che nel gennaio del 1994 era a Seattle, dove stava lavorando a quella che sarà la sua ultima sessione di registrazione in studio. Insieme a Krist Novoselic, Dave Grohl e Pat Smear incise la canzone “You Know You’re Right”.
A febbraio, fu ospite insieme al suo gruppo musicale della tv italiana; partecipò al programma “Tunnel”, su Rai 3, condotto da Serena Dandini. Questa sarà l’ultima apparizione televisiva di Cobain.

Dopo una tappa del tour europeo al Terminal Eins di Monaco, in Germania, il 1° marzo 1994, a Cobain fu diagnosticata una bronchite e una grave laringite, così il cantante si concesse un periodo di riposo; volò a Roma per cure mediche e lì fu raggiunto da sua moglie Courtney Love, il 3 marzo. La mattina successiva, quando la donna si svegliò, scoprì che suo marito era in overdose: aveva ingerito una combinazione di champagne e rohypnol. Cobain fu condotto d’urgenza in ospedale e rimase incosciente per il resto della giornata. Dopo cinque giorni fu dimesso e tornò a Seattle. In seguito, Courtney sostenne che l’incidente era stato un primo tentativo di suicidio.

Il 18 marzo 1994, la Love telefonò alla polizia di Seattle, informandola che suo marito aveva tendenze suicide e si era chiuso in una stanza con una pistola. La polizia arrivò e confiscò diverse pistole e una bottiglia di pillole. In quell’occasione, Cobain sostenne che, non aveva tendenze suicide: si era chiuso nella stanza per nascondersi da sua moglie.

Il 25 marzo 1994, Courtney organizzò un intervento sull’uso di droga. Furono coinvolte dieci persone, tra le quali amici musicisti, dirigenti di case discografiche e uno degli amici più cari di Cobain, Dylan Carlson. Cobain reagì con rabbia a quella iniziativa, insultando i partecipanti, e successivamente chiudendosi nella camera da letto al piano di sopra. Tuttavia, alla fine della giornata, accettò di sottoporsi a un programma di disintossicazione per alcuni giorni in una struttura residenziale a Los Angeles.

Il 31 marzo, nottetempo, Cobain lasciò la struttura e volò a Seattle. Durante il volo si sedette vicino a Duff McKagan, bassista dei Guns N’ Roses, che in seguito dichiarò di aver compreso che qualcosa non andava. 
Dopo la fuga, la maggior parte degli amici e della famiglia di Cobain non sapevano dove il cantante si trovasse. Finché l’8 aprile, il corpo senza vita di Kurt fu rinvenuto nella sua casa sul Lake Washington Boulevard, da un elettricista della Veca Electric, Gary Smith. L’uomo, giunto sul luogo per installare un sistema di sicurezza, non avrebbe mai pensato di trovarsi di fronte a una tale scoperta.

Accanto al corpo di Cobain fu rinvenuto un fucile Remington Model 11 calibro 20 e una lettera, indirizzata all’amico immaginario d’infanzia dell’artista: Boddah. Tra le righe del suo scritto, il cantante confessa di non provare più alcuna eccitazione ad ascoltare e creare musica, oltre a scrivere davvero, ormai da troppi anni.

Quando fu ritrovato, il cadavere di Cobain era lì da giorni, e dal rapporto del medico legale emerse che fosse morto almeno tre giorni prima, cioè il 5 aprile 1994. Inoltre, fu rilevato che il cantante aveva ingerito valium in dosi non terapeutiche e si era iniettato una dose di eroina sufficiente per una tripla overdose.

Molti di quelli che conoscevano il cantante, non rimasero particolarmente sorpresi dal suo suicidio.
Dave Grohl, batterista dei Nirvana, disse che la notizia della morte di Cobain fu probabilmente la cosa peggiore che gli fosse capitata nella vita. Anche se aveva immaginato che il cantate sarebbe morto giovane perché, purtroppo, “a volte non puoi proprio salvare qualcuno da se stesso“.
Dave Reed, che per poco tempo fu il padre adottivo di Cobain, disse che “aveva la disperazione, non il coraggio, di essere se stesso”.

Il 10 aprile, si tenne una veglia pubblica in un parco del Seattle Center che attirò circa 7.000 persone in lutto. Alla cerimonia furono riprodotti  dei messaggi preregistrati di Krist Novoselic, il bassista dei Nirvana, e di Courteny che lesse alla folla anche alcune parti della lettera lasciata da Cobain, piangendo e rimproverando suo marito per il suo gesto estremo. Verso la fine della veglia, la Love distribuì alcuni vestiti di Cobain a coloro che erano rimasti.

Il 31 maggio 1999, una cerimonia finale fu organizzata dalla madre di Cobain, alla quale parteciparono anche Courtney Love e Tracy Marander, primo amore di Kurt Cobain.
Mentre un monaco buddista cantava, la figlia Frances Bean sparse le ceneri di Cobain a McLane Creek, a Olympia, la città dove “aveva trovato la sua vera musa artistica“.
Nel 2006, Courtney disse di aver conservato le ceneri del marito nel caveau di una banca a Los Angeles, perché nessun cimitero di Seattle le avrebbe accolte.

La morte del leader dei Nirvana diventò presto un argomento di interesse e dibattito pubblico. Gli sforzi artistici e le lotte di Cobain contro la dipendenza, la malattia e la depressione, così come le circostanze non del tutto chiare della sua morte, sono diventati un frequente argomento di controversia.
Secondo un portavoce del dipartimento di polizia di Seattle, ogni settimana perviene una richiesta di riapertura delle indagini.

Nel marzo 2014, la polizia di Seattle sviluppò quattro rullini di pellicola che erano stati lasciati in un deposito prove e non furono fornite spiegazioni del perché non fossero stati sviluppati prima.
Secondo la polizia di Seattle, le fotografie, su pellicola da 35 mm, mostravano la scena del cadavere di Cobain in modo più chiaro rispetto alle Polaroid scattate dalla polizia.

Al detective Mike Ciesynski, investigatore di casi irrisolti, fu stato chiesto di guardarle. L’uomo affermò che la morte di Cobain era stata un suicidio e che le immagini non sarebbero state rese pubbliche.
Le foto furono poi rilasciate, una per una, alcune settimane prima del 20° anniversario della morte del cantante.
Una foto mostrava il braccio di Cobain con ancora indosso il braccialetto del centro di riabilitazione dalla droga, lasciato solo pochi giorni prima di tornare a Seattle. In un’altra foto si vedeva il piede di Cobain, appoggiato accanto a un sacchetto di cartucce per fucili, una delle quali ne aveva provocato la morte.

Anche se il caso è stato archiviato come suicidio, c’è chi ancora mormora che Cobain sia stato assassinato; tra questi anche alcuni esperti forensi.
Non sappiamo quale sia la verità e forse non la conosceremo mai, però la vicenda presenta dei retroscena che non si possono ignorare.

Il primo indizio dalle dubbie connotazioni riguarda l’arma del delitto.
Il fucile, appoggiato sul braccio sinistro e in una posizione innaturale per una persona che si è sparata alla testa, non fu controllato per le impronte digitali, almeno fino al 6 maggio, cioè un mese dopo la morte del cantante. Furono rilevate quattro schede di impronte latenti, ma nessuna di esse era più leggibile.

Altro punto dolente: il rapporto tossicologico ufficiale stabilì che il livello di eroina nel flusso sanguigno di Cobain era di 1,52 milligrammi per litro. Una dose potenzialmente letale, tanto che, un investigatore privato, Tom Grant, assunto da Courtney Love per rintracciare Cobain, quando era fuggito dalla struttura di Los Angeles, sostenne che si trattava di una prova certa che il cantante non si fosse suicidato, perché la droga ne avrebbe provocato la morte, impedendogli di spararsi. Grant ipotizzava che l’eroina fosse stata somministrata a Cobain da un’altra persona che poi gli aveva sparato con il fucile. Questa persona per Grant era la moglie dell’artista.
Anche l’avvocato di Cobain, Rosemary Carroll, condivideva le ipotesi dell’investigatore e lo incoraggiò a proseguire le indagini.

Per quanto riguarda il movente dell’omicidio, circolava una voce che Kurt Cobain volesse divorziare da sua moglie. A confermare ciò, c’era il fatto che il cantante aveva escluso Courtney dal testamento poche settimane prima di morire.

Un altro elemento che alimentava i dubbi sul suicidio fu la lettera lasciata da Cobain: il suo contenuto sembra suggerire più un addio alle scene che un desiderio di togliersi la vita. Inoltre, le ultime quattro righe, nelle quali l’artista si rivolge alla moglie e alla figlia e dichiara che sarebbero state meglio senza di lui, sembrano non essere di suo pugno.
Controllata da molti esperti, i risultati conclusivi furono discordanti: alcuni erano convinti fosse la calligrafia di Cobain; altri, invece, sostenevano un intervento post mortem di un altro soggetto.

Nel documentario “Soaked in Bleach”, diretto da Benjamin Statler, fu assunto il punto di vista di Tom Grant che riteneva la moglie di Cobain responsabile dell’omicidio del marito.
Courtney Love fece causa al regista e tentò di impedire la proiezione del film nei cinema, ma nonostante tutti gli sforzi dei suoi legali, il documentario divenne di dominio pubblico.
Il 13 ottobre del 2015, in un articolo del “MailOnline”, uscì una clip esclusiva del documentario, in cui era avvalorata la tesi dell’omicidio.

Nel breve video pubblicato, Heidi Harralson, un’esaminatrice di documenti forensi scritti a mano, spiegava di aver rinvenuto un cosiddetto foglio di pratica, nella borsa di Courtney Love, dove c’erano varie lettere dell’alfabeto. Messo a confronto con la parte finale della lettera di Cobain, il foglio presentava le stesse combinazioni di lettere presenti nella parte inferiore del documento lasciato dal cantante prima di morire.
Un’altra linguista forense, Carole Chaski, affermò che la parte iniziale della lettera aveva una grafia e uno stile linguistico diverso dal resto. Inoltre, nel documento, solo le ultime quattro righe facevano riferimento al rapporto che Cobain aveva con la sua famiglia e il contenuto era abbastanza scontato.

Anche l’ex capo della polizia di Seattle negli anni tra il 1994 e il 2000, Norm Stamper, fece delle dichiarazioni nel breve video, manifestando la sua convinzione che Kurt Cobain fosse stato vittima di un omicidio e auspicava una riapertura del caso, al fine di raggiungere una certezza, dato che non c’era stata una conclusione definitiva.

Ci furono anche altre testimonianze a favore dell’omicidio, come le dichiarazioni di Eldon Hoke, batterista heavy metal di Los Angeles, che nel 1998, durante le riprese del documentario “Kurt & Courtney”, diretto da Nick Broomfield, sostenne di aver ricevuto un’offerta di cinquantamila dollari da parte di Courtney per uccidere il marito.
Le parole di Hoke furono confermate anche da Karush Sepedjian, dirigente del negozio Rock Shop di Hollywood, davanti al quale avvenne la compromettente conversazione riferita dal batterista.
Al momento non si può confermare o smentire la dichiarazione di Hoke, perché è deceduto pochi giorni dopo le sue dichiarazioni, travolto da un treno.

A detta sua, Hoke rifiutò l’incarico, ma dei sospetti gravano su un altro musicista di Seattle: Allen Wrench. Secondo alcuni fu Courtney a commissionargli l’omicidio del marito; secondo altri fu Hoke a passargli l’incombenza, per non essere coinvolto in prima persona. A confermare tale ipotesi ci fu il fatto che Wrench, poco dopo la morte di Cobain, iniziò a condurre uno stile di vita molto al di sopra delle sue possibilità.

La vicenda si tinge ancora più di mistero se si considera il fatto che la carta di credito di Cobain fu usata il 6 aprile (gli estratti conti bancari mostrano due transazioni), il giorno successivo alla morte del cantante. Alcuni sostennero che non ci fosse nulla di sospetto: la data post morten indicava il giorno in cui la spesa era stata addebitata, non la data in cui la transizione aveva avuto realmente luogo.
Altri invece sostennero che la carta fosse stata usata da qualcuno dopo la morte dell’artista. A conferma di ciò: la menzione del ritrovamento di una sigaretta sulla scena del “crimine”, di una marca diversa da quella che fumava solitamente Cobain. In pratica, nel posacenere c’erano la sigaretta del cantante insieme a quella di un estraneo, mai identificato.

Nel 2021, 27 anni dopo la morte di Cobain, l’FBI divulgò un file in cui furono rivelati dei dettagli sul suicidio del cantante. Il documento includeva due lettere dove si affermava che la moglie del leader dei Nirvana era coinvolta nella morte del marito. Nonostante la donna fosse da sempre sospettata, l’FBI non poté investigare, perché, in base alle informazioni ricevute, le leggi federali non era state violate. Quindi, la giurisdizione non spettava loro.

Finora, nessuna prova schiacciante è stata rinvenuta contro Courtney Love, niente almeno che possa confutare la versione ufficiale della morte di Kurt Cobain.

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