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Artemisia Gentileschi: “Giuditta che decapita Oloferne” #2

“Giuditta che decapita Oloferne” è una delle tele più drammatiche di Artemisia Gentileschi. Una scena cruenta in cui l’artista ha sapientemente mescolato realismo e violenza

“Giuditta che decapita Oloferne” è una delle tele più drammatiche di Artemisia Gentileschi. Una scena cruenta in cui l’artista ha sapientemente mescolato realismo e violenza.

Uno dei dipinti di Artemisia Gentileschi, tra i più noti e anche tra quelli che hanno suscitato e suscitano una forte reazione emotiva è: “Giuditta che decapita Oloferne”, un dipinto a olio su tela (199 x 162,5 cm). La pittrice lo realizzò nel 1620 circa; attualmente è conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze.

Il soggetto del dipinto è biblico e non si trattava di un tema nuovo: era già stato rappresentato da altri artisti, tra cui, in particolare, da Caravaggio (1571 – 1610), nel 1602.
L’episodio a cui fa riferimento il quadro della Gentileschi è narrato nel “Libro di Giuditta”. Giuditta era una giovane ebrea di Betulia che accompagnata da una sua ancella, andò nel campo nemico, circuì e poi decapitò Oloferne, il feroce generale nemico, portando così Israele alla liberazione del suo popolo dall’assedio dell’esercito di Nabucodonosor.

Artemisia Gentileschi ritrae il momento dell’uccisione di Oloferne. Il quadro suscita un effetto terribile e potente al tempo stesso. La scena mostra il generale riverso sul letto ubriaco, Giuditta che afferra con una mano la chioma dell’uomo, mentre con l’altra stringe una lunga spada che affonda nel collo di Oloferne.

La pittrice non ha lesinato sui dettagli più cruenti: il sangue schizza copioso e macchia persino il petto di Giuditta.
La Gentileschi completò il dipinto a Roma, dove era tornata dopo un lungo periodo trascorso a Firenze. L’opera rivela forti influssi caravaggeschi: la pittrice aveva avuto modo di rivedere le opere del pittore durante il suo soggiorno fiorentino.

Realizzato per Cosimo II de’ Medici (1590 – 1621), il quadro non fu accolto positivamente, quando fu inviato a Firenze dal suo committente. La rappresentazione cruda e realistica, infatti, suscitò forti reazioni e le fu per questo negata un’esposizione privilegiata in Galleria: la tela fu relegata in un angolo buio di Palazzo Pitti.
Artemisia Gentileschi faticò anche per ottenere il compenso per la commessa e fu solo grazie all’intervento del suo buon amico, Galileo Galilei (1564 – 1642), che non dovette rinunciarvi.

Artemisia Gentileschi aveva già dipinto una versione della stessa scena qualche anno prima della tela fiorentina. La nuova versione mostra una maggiore cura e pazienza rispetto alla precedente. In particolare, sono rappresentati con maggiore minuzia i tessuti e gli atteggiamenti dei personaggi.

Le tre figure sulla scena presentano una disposizione a triangolo e sono ritratte nell’atto di eseguire dei movimenti precisi e studiati. Si evidenziano, in particolare, la torsione del busto di Giuditta che dà al quadro un certo dinamismo e la rotazione del suo braccio destro, che serve a illustrare lo sforzo che la donna sta compiendo per decapitare Oloferne.

La scena è proiettata su un fondo scuro che oltre a creare un’atmosfera misteriosa, fa risaltare maggiormente il terribile evento. Inoltre, Artemisia ha aggiunto diversi dettagli per distinguere il diverso censo cui appartengono le due donne, come il bracciale in oro con camei antichi di Giuditta e la sua acconciatura precisa, nonché la veste in damasco giallo.

Rispetto al primo dipinto, in questa nuova tele è evidente una massiccia presenza del sangue che dà al quadro una maggiore drammaticità. Il sangue sprizza copioso dal collo della vittima; è presente sotto forma di goccioline rosse in tutto il quadro; gocciola dal letto e bagna le lenzuola bianche.

L’originalità di questo dipinto fu rilevata, in particolare da Roland Barthes (1915 – 1980; saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese): “Il primo colpo di genio è quello di aver messo nel quadro due donne, e non solo una, mentre nella versione biblica, la serva aspetta fuori; due donne associate nello stesso lavoro, le braccia frapposte, che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna. Non sembrano due lavoranti sul punto di sgozzare un porco? Tutto ciò assomiglia a un’operazione di chirurgia veterinaria. Nel frattempo (secondo colpo di genio), la differenza sociale delle due compagne è messa in risalto con acume: la padrona tiene a distanza la carne, ha un’aria disgustata anche se risoluta; la sua occupazione consueta non è quella di uccidere il bestiame; la serva, al contrario, mantiene un viso tranquillo, inespressivo; trattenere la bestia è per lei un lavoro come un altro: mille volte in una giornata essa accudisce a delle mansioni così triviali”.

In copertina: particolare del dipinto, “Giuditta che decapita Oloferne” di Artemisia Gentileschi

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