La pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi dovette combattere per affermare la sua arte, in una società e in un’epoca dove questa professione era appannaggio dei soli uomini.
La forza di questa donna, che andò contro pregiudizi e calunnie, sembra rispecchiarsi in Giuditta, protagonista di una delle sue tele più conosciute.
All’epoca in cui Artemisia Lomi Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, circa 1656) venne al mondo, Roma era un grande centro artistico, ovunque si respirava un’atmosfera pregna di arte e cultura in genere.
Fu, in primis, la Riforma Cattolica a rendere la città eterna un luogo fervente di attività, come il restauro di molte chiese e vari interventi urbanistici che richiamarono a Roma numerose figure di professionisti di vario genere da impiegare nelle varie commesse.
Artemisia impugnò presto il pennello. Era ancora una bambina che già osservava affascinata il padre, Orazio Gentileschi (1563 – 1639), che dipingeva. E fu proprio lui ad iniziarla all’arte della pittura, valorizzando già agli esordi il talento precoce della figlia.
La formazione della Gentileschi avvenne, nell’ambito artistico romano, proprio sotto la guida del padre. Il pittore fiorentino, innanzitutto, insegnò ad Artemisia l’abc del mestiere, da lui, la giovane figlia imparò come preparare i materiali per realizzare i dipinti; come macinare i colori; come estrarre e purificare gli oli; come fabbricare i pennelli; come preparare le tele, ecc.
Quando finalmente raggiunse una certa confidenza con gli strumenti di lavoro, Artemisia affinò le sue doti pittoriche, copiando i dipinti e le xilografie che aveva a disposizione.
La giovane pittrice subì l’influenza dell’ambiente artistico che la circondava e in particolare, si rilevano forti suggestioni caravaggesche nella sua pittura, filtrate attraverso i dipinti di Orazio, in quanto, essendo una donna poté sviluppare le sue doti solo in ambito domestico: le erano preclusi i classici percorsi di apprendimento, che erano riservati esclusivamente ai suoi colleghi maschi.
Tra il 1608 e il 1609, Artemisia diventa una fattiva collaboratrice di suo padre, prestando la sua opera su alcune tele di Orazio e realizzando anche delle piccole opere in autonomia.
Nel 1610, la Gentileschi realizzò l’opera che ne decretò l’ingresso nel mondo dell’arte: “Susanna e i vecchioni” che già mostra in nuce le capacità della futura artista.
A conferma della maturità raggiunta dalla pittrice ci sono le numerose commesse del periodo, che non potevano essere evase soltanto grazie all’attività del padre. Inoltre, si profilano i primi commenti entusiasti da parte di alcune persone di spicco dell’epoca riguardo all’abilità pittorica di Artemisia.
Uno degli episodi legati alla vita della pittrice, e cioè lo stupro da lei subìto nel 1611, ha quasi oscurato la fama di Artemisia, gettando ombre sulla sua opera e dando vita a teorie che hanno sminuito le sue capacità artistiche, favorendo l’idea che le sue opere fossero una sorta di reazione alla violenza e una forma di vendetta per quello che le era accaduto.
In realtà, Artemisia non solo era un’artista degna di essere definita tale, ma anche una donna forte e determinata, che riuscì a superare non solo la violenza subita, ma anche il terribile processo che ne seguì e le calunnie di cui fu oggetto a lungo. Oltretutto, l’artista fu in grado di affermarsi in un mestiere che alla sua epoca, e non solo, era esercitato solo dagli uomini.
La pittrice durante la sua vita si spostò in diverse città, alla ricerca di commesse migliori e più fruttuose. Fu a Firenze, poi tornò a Roma, infine, si trasferì a Napoli, dove trovò un’atmosfera confacente alla sua persona e alla sua arte, e infatti, qui rimase fino alla morte, tranne che per una breve puntata a Londra nel 1638, quando fu chiamata presso la corte di Carlo I (1600 – 1649).
Artemisia è ricordata principalmente per la sua capacità di ritrattista e per la sua abilità a mettere in scena le eroine bibliche. Una delle sue opere più note è “Giuditta che decapita Oloferne”, di cui parleremo in un prossimo post.
In copertina: particolare del dipinto, “Autoritratto come allegoria della Pittura” di Artemisia Gentileschi, (1638-1639), Royal Collection, Windsor