Secondo la mitologia greca, il Tartaro era sia una divinità primordiale, come la Terra, il Tempo e la Notte, sia l’abisso profondo, un luogo di prigionia e di sofferenza, dove furono confinati anche i Titani.
Secondo Platone, nel Tartaro le anime dei defunti erano giudicate e i malvagi ricevevano la punizione divina. Invece, per le fonti orfiche antiche, il Tartaro era la prima entità incommensurabile da cui trassero la vita la luce e il cosmo.
Esiodo (poeta greco antico, metà VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.) nella sua Teogonia (poema mitologico che narra la storia e la genealogia degli dei greci, probabilmente scritto intorno al 700 a.C.) definisce come Tartaro sia la terza delle divinità primordiali, dopo Caos e Gaia, sia il luogo che “così profondo sotto la terra […], che se un’incudine di bronzo cadesse dalla terra, dopo nove notti e nove giorni, al decimo arriverebbe al Tartaro” (Esiodo, Teogonia, vv. 721-25).
“Per quanto sotto l’Ade come il cielo è al di sopra della terra” sostiene Zeus, nell’Iliade, riferendosi al Tartaro, mentre nella Bibliotheca dello Pseudo-Apollodoro (compendio di miti greci e leggende eroiche, datato al I o II secolo d.C.) il Tartaro è “un luogo cupo nell’Ade tanto distante dalla terra quanto la terra è distante dal cielo“.
Nel Tartaro furono rinchiusi da Crono i Ciclopi (divinità gigantesche con un occhio solo al centro della fronte) e gli Ecatonchiri (figli di Urano e di Gea; avevano cento braccia e cinquanta teste che sputavano fuoco) e come custode fu posto Campe (mostro, la cui metà superiore aveva l’aspetto di una donna anziana; quella inferiore, di drago, ricoperta di serpenti) che fu ucciso da Zeus, per liberare i prigionieri che lo aiutarono a sconfiggere i Titani. Con la vittoria degli dei dell’Olimpo, si verificò un ribaltamento: gli Ecatonchiri da prigionieri divennero i guardiani del Tartaro.
Ai suoi primordi, il Tartaro serviva agli dei dell’Olimpo per contenere i pericoli, successivamente, divenne un luogo di prigionia e di sofferenza per i mortali che avevano commesso dei peccati contro gli dei; le punizioni erano specifiche per ogni condannato, tarate secondo le loro colpe.
Sisifo, uomo scaltro e senza scrupoli, fu relegato nel Tartaro e qui forzato a spingere un grosso masso dalla base fino alla cima di una montagna. Giunto sulla cima, il masso rotolava di nuovo alla base e Sisifo dove compiere il medesimo tragitto da capo, e questo per l’eternità.
Un’altra punizione esemplare fu quella del re Tantalo che nel Tartaro fu condannato ad avere sempre fame e sete, senza alcuna possibilità di poterle appagare. Tantalo aveva una pietra che lo schiacciava; contemporaneamente era legato a un albero da frutto e immerso fino al collo in un lago. Non appena provava a prendere un frutto dall’albero i rami si allontanavano, mentre se tentava di bere, il lago si prosciugava.
Invece, Issione, una volta gettato nel Tartaro, fu legato a una ruota fiammeggiante e costretto per l’eternità a girare nella volta celeste. Una “indiscrezione” sostiene che la ruota di Issione si fermò, ma solo per qualche secondo, quando Orfeo, sceso nell’oltretomba per salvare la sua sposa Euridice, suonò la sua prodigiosa lira.
Anche il gigante Tizio subì una punizione terribile: disteso nel Tartaro doveva sopportare che due avvoltoi si nutrissero del suo fegato; una condanna simile fu comminata anche al titano Prometeo.
La lista dei residenti del Tartaro non si esaurisce qui, comunque, in generale, qui giungevano le anime ritenute ingiuste o spergiure. Se qualcuno aveva commesso dei crimini considerati sanabili poteva essere purificato, mentre chi era considerato colpevole di un crimine incurabile doveva subire la punizione per l’eternità e fungeva in tal modo da monito per i vivi.
Platone sosteneva che Radamanto (re dell’isola di Creta), Eaco (uomo giusto, spesso chiamato quale arbitro nelle contese), Minosse (figlio di Zeus e di Europa, re giusto di Creta) e Trittolemo (re di Eleusi) fossero i giudici dei morti. Gli antichi definivano “giudizio di Radamanto” un giudizio giusto anche se severo.
Se volete “fare una visita” agli inferi e deliziare la vostra immaginazione, non vi resta che leggere la descrizione accurata che ci è stata offerta da Virgilio nel libro VI dell’Eneide.
Sembra che il poeta fosse rimasto impressionato dai Campi Flegrei. I numerosi crateri, la natura selvaggia e il suolo ribollente erano l’ideale paesaggio per dare corpo a un oscuro aldilà che Virgilio descrive come uno spazio ampio, dotato di una tripla cinta che impediva ai condannati di fuggire; altro ostacolo era Flegethon, il fiume fiammeggiante.
L’ingresso era controllato da un’idra che aveva cinquanta mascelle nere e spalancate. Dentro le mura era posto un castello munito di un’alta torretta di ferro da cui Tisifone (una delle Erinni o Furie, personificazioni femminili della vendetta) faceva la guardia munita della sua frusta.
In copertina: Minosse giudica i dannati nell’Inferno di Dante Alighieri (illustrazione di Gustave Doré)