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Ars moriendi: l’arte di morire bene, guadagnandosi, magari, il paradiso

Dopo il funesto passaggio della peste nera, nascono delle sorte di prontuari di ars moriendi, che insegnano al popolo come fare una buona morte e illustrano una serie di regole utili per conquistare il paradiso.

Dopo il funesto passaggio della peste nera, nascono delle sorte di prontuari di “ars moriendi”, che insegnano al popolo come fare una buona morte e illustrano una serie di regole utili per conquistare il paradiso.

Il termine ars moriendi (l’arte di morire) ha tre possibili significati, collegati fra loro: qualsiasi discussione teologica o spirituale tesa a preparare i cristiani alla morte; un genere di opere di origine quattrocentesca (i cui titoli, solitamente, comprendono parole come “arte” o “metodo”) che appaiono come guide alla conduzione dell’ultimo periodo della propria vita; due opere in latino, anonime e strettamente collegate, che divennero molto popolari.

All’ars moriendi, che si esprimeva liturgicamente con preghiere e riti per i moribondi (specie gli ultimi sacramenti: Confessione, Viatico ed Estrema Unzione), e con il genere letterario a essa dedicata – che spiegava ai cristiani, con dovizia di dettagli, come gestire gli ultimi giorni o ore della loro vita, affinché potessero salvarsi – si contrapponeva l’ars vivendi (arte di vivere), ambito speciale della predicazione e della letteratura devozionale, che insegnava il peccato ed esortava i cristiani a condurre una vita virtuosa, per essere pronti ad affrontare la morte, in qualsiasi forma fosse giunta e in qualsiasi momento.

L’accento dell’ars moriendi era posto sull’ultima ora e sulle circostanze della morte, e si fornivano preghiere e invocazioni ai santi, affinché offrissero protezione contro una morte improvvisa e imprevista.
L’enfasi dell’ars vivendi, invece, risaliva a una massima stoica che affermava che nessuna morte è cattiva, se è preceduta da una buona vita.

I due testi in latino, ispirati ai precetti cristiani di epoca tardo medievale, che portano il nome di “Ars moriendi” (L’arte di morire), elencano protocolli e procedure, ed elargiscono consigli per una buona morte. Come altri testi sulla stessa scia, nascono in un clima particolare, quello che si era creato tra il 1415 e il 1450, dopo le epidemie causate dalla peste.
Dal latino, loro lingua originaria, entrambi passarono ai vari volgari; in seguito, considerata la grande popolarità di cui godevano, furono tradotti in gran parte delle lingue dell’Europa occidentale. Ma non finì qui la loro fortuna, infatti, essi furono precursori di tutta una serie di testi che fungevano da guide sulla morte.

Dell’Ars moriendi esistono due versioni: una lunga (CP) e una breve (QS). Le sigle “CP” e “QS” sono tratte dalla monografia di suor Mary Catharine O’Connor, “The Art of Dying Well: the Development of the Ars Moriendi” (L’arte di morire bene: lo sviluppo dell’ars moriendi) – che, di tale materia, rappresenta l’opera più preziosa – e derivano dagli “incipit” dei testi latini: “Cum de presentis” e “Quamvis secundum”.

Nel contesto tardo-medievale, il termine “arte” era equiparato ad “abilità”, cioè, capacità di applicare i principi di uno specifico corpo di conoscenze a delle situazioni concrete.
La scelta della parola “arte” ha quindi comportato il trasferimento della connotazione pratica del termine a un mondo familiare e a una lunga serie di opere di vario genere, come: l’arte della caccia, l’arte notarile, l’arte degli scacchi, l’arte di essere un buon confessore.
Secondo il catalogo moderno più completo dei libri del Quattrocento, sono elencate ben 132 edizioni di varie arti. Di queste, 75 sono edizioni in latino e vari volgari della CP (39) e della QS (26).

La versione breve dell’Ars moriendi era illustrata, ed era composta da undici xilografie che consentivano una comprensione immediata e anche una facile memorizzazione dei concetti.
La versione più estesa fu probabilmente scritta tra il 1414 e il 1418; era denominata “Tractatus (o Speculum) artis bene moriendi” e il suo autore, anonimo, si ritiene fosse un frate domenicano, quasi certamente di origine germanica.
Si suppone che l’ “Opusculum tripartitum de praeceptis decalogi, de confessione et de arte moriendi” di Jean Gerson (1363-1429, teologo e filosofo francese) ne sia stato la principale fonte di ispirazione.

Gerson iniziò la forma letteraria dell’ars moriendi con un’opera scritta in francese (prima del 1403), questa fu tradotta in latino e poi inclusa, come terza e ultima parte, nella sua famosa “Opus tripartitum” (1404/8). Come pubblico della sua opera, l’autore immaginò: sacerdoti, prelati e semplici laici.
I primi due trattati dell’Opus tripartitum rappresentavano l’ars vivendi, senza collegarla alla preparazione alla morte e vi era riassunta la dottrina cristiana di base, poi, l’autore si rivolgeva all’arte di morire.
La terza parte dell’Opus tripartitum, il “De arte moriendi”, resta, comunque, il suo contributo più influente sull’argomento.

Il testo dell’Ars moriendi (CP) attingeva a luoghi comuni: dalla filosofia morale pagana alla Scrittura, dai Padri a una varietà di fonti medievali. La sua natura eclettica e il fatto che fosse priva di un’organizzazione chiara rappresentava una sfida per il lettore che doveva selezionare e ordinare il materiale presentato. La sua grande popolarità è la dimostrazione che i lettori compresero che quest’opera aveva uno scopo pratico non letterario.

L’Ars moriendi ebbe una grande diffusione in Inghilterra e la tradizione letteraria legata alla morte consolatoria, basata su questi testi, rimase fino al Seicento. “Holy Living and Holy Dying” (Vivere e morire santamente), titolo di due libri di devozione cristiana del religioso inglese, Jeremy Taylor (1613-1667), rappresenta il culmine di questa tradizione letteraria.

L’Ars moriendi fu anche tra i primi libri stampati.
Prima del 1500, si contano almeno 100 edizioni, in Germania. La “versione lunga” restò in auge con quasi 300 versioni manoscritte, una soltanto dotata di illustrazioni. Questa versione è strutturata in sei capitoli:

  • Il primo loda la morte e sostiene che non bisogna averne paura, inoltre, afferma che il morire ha un lato buono
  • Il secondo illustra le cinque tentazioni (incredulità, disperazione, impazienza, vanagloria e avarizia) che angustiano i moribondi e il modo in cui rimediare a esse
  • Il terzo capitolo enumera le sette domande da fare ai moribondi, modellate sull’opera del teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, Anselmo di Canterbury (ca. 1033-1109) “Ammonizione di San Anselmo a chi muore e teme eccessivamente per i suoi peccati” e su quella di Jean Gerson
  • Il quarto capitolo contiene preghiere da dire al moribondo, introdotte da istruzioni sull’atteggiamento giusto verso la morte
  • Il quinto capitolo enumera le istruzioni da dare al moribondo sulle virtù necessarie per restare saldo
  • Il sesto capitolo contiene una serie di preghiere che i presenti devono recitare all’approssimarsi della morte

Le due sezioni più sorprendenti sono le tentazioni e le domande, rispettivamente, il secondo e il terzo capitolo.

Prendendo in esame la versione breve dell’Ars moriendi (QS), si può constatare che è una riduzione del secondo capitolo della versione lunga (CP). Essa inizia con l’asserzione di Aristotele che la morte del corpo è il più grande di tutti i terrori, asserzione contraddetta da S. Agostino che afferma che piuttosto è la morte dell’anima.
Questa versione include undici disegni, realizzati con la xilografia. Le prime dieci illustrazioni sono accoppiate: da una parte la tentazione del diavolo, dall’altra il rimedio.
Nell’ultima illustrazione, si vede il moribondo che ha sconfitto le tentazioni ed è stato accolto in paradiso, mentre i diavoli tornano all’inferno.
Le cinque tentazioni sembrano scelte con uno scopo specifico, infatti, l’autore non illustra i sette peccati capitali, probabilmente, perché la selezione si basava sull’effettiva esperienza pastorale con le persone morenti.

La funzione principale della versione breve dell’Ars moriendi è quella di preparare tutti alla lotta finale – laici e clericali, letterati e analfabeti – mediante l’utilizzo di testi concisi e disegni vividi, che variano nei dettagli, mentre l’iconografia di base resta la stessa.
Questa versione, ancor più di quella lunga, era intesa come un’opera devozionale che doveva favorire la meditazione sulla morte e il distacco, che i cristiani erano costantemente sollecitati a praticare.
Entrambe le versioni, però, offrivano anche indicazioni pratiche al moribondo e agli assistenti, per la gestione dell’esperienza del letto di morte stessa.

La letteratura medievale aveva ben presente il bisogno di prepararsi alla morte.
Prima del Quattrocento, però non esisteva alcuna tradizione letteraria che consentisse alle persone di affrontare la morte con una sorta di prontuario, che elargisse consigli e raccomandazioni, per affrontare una buona morte e assicurarsi il paradiso: rituali e procedure erano materia esclusiva dei sacerdoti.
Per questo l’Ars moriendi fu una risposta rivoluzionaria della Chiesa cattolica, nata forse dalla mancanza di sacerdoti, decimati dalle epidemie di peste.
Prima di formare nuovi religiosi, sarebbe occorso del tempo e nell’attesa, questi prontuari, fatti di testi semplici e immagini esplicative, erano l’ideale per sostituire la figura del sacerdote e aiutare la popolazione ad affrontare la morte.

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