Come l’emergenza sanitaria ha cambiato il nostro culto della morte.
Ciò che ci ha colpiti a livello globale ha comportato una distanza sociale legata alla solitudine dell’individuo, all’isolamento, alla solitudine degli operatori stessi a contatto giorno per giorno con l’evento-morte.
Questo a livelli nuovi, a cui non si può cercare una soluzione dagli eventi del passato.
Non solo medici e infermieri ma, anche e soprattutto, gli Operatori funebri.
Coloro che sono l’anello di congiunzione.
Coloro, Noi, che ci prendiamo cura dei nostri morti.
E’ una circostanza antropologicamente e storicamente inedita.
Siamo stati presi contropiede: avevamo progetti, viaggi, incontri e improvvisamente ci siamo trovati il vuoto sotto i piedi.
O, ancora peggio, come se indossassimo le “scarpe di qualcun altro“.
Riconoscendo cioè uno spaesamento, un senso di inadeguatezza che da subito avremmo voluto soffocare, raggirare.
La stanchezza, il burnout (mi permetto di chiamarlo tale) nell’entrare in una routine più domestica, tra le mura di una casa che fino a due mesi fa, forse, vedevamo solo una volta finita la lunga giornata lavorativa, stanno avendo risvolti a livello psicosociale devastanti.
Inutile negarlo: la tentazione (per quelle poche volte che si esce di casa) è quella di avvicinarsi, di stringersi la mano, di avvolgere un conoscente in un abbraccio.
Ma anche una percezione dell’Altro come possibile “untore”, per cui si prova timore ma anche impotenza, tristezza e che rafforza ancora di più il senso di isolamento.
Ma è la morte il tema più discusso: una Morte che dal secondo dopoguerra ha iniziato a diventare un tabù, un evento che non ci riguarda se non solo quando effettivamente ci coinvolge o meglio, coinvolge i nostri affetti.
E allora ci trova spiazzati, increduli, incapaci di affrontare il lutto: lo neghiamo, lo evitiamo, lo rimandiamo. La rabbia ci consuma così il senso di colpa a volte, per poi accettare l’accaduto. E non necessariamente in questo ordine.
Non oso immaginare l’assenza di un corpo su cui non poterpiangere.
Abbiamo bisogno di concretezza, di presenza e non di assenza, del corpo.
Spesso però, tendiamo a negare il pensiero, a negare il nostro dolore, perché dobbiamo tornare alla normalità, al nostro lavoro, al riempire la nostra mente con qualcos’altro, possibilmente più piacevole.
Non possiamo permetterci di essere tristi, non vogliamo pesare sugli altri.
E ci rifugiamo in quel silenzio che rimbomba tra le pareti della nostra memoria.
Non è anche questa, forse, una dimenticanza?
Molti sono i morti dimenticati, e non solo coloro sfortunatamente affetti dal Covid. Perchè, forse, l’impressione che si può avere è proprio quella di una dimenticanza, di essersi dimenticati qualcosa.
In realtà, i nostri cari scomparsi, non ce li siamo dimenticati. Ma abbiamo dovuto in qualche modo evolvere il nostro modo di onorarli.
Magari il nostro ultimo saluto si è sintetizzato in una telefonata, o ad una visita in hospice. Da lì, l’oblio.
Le veglie, le vestizioni, l’accompagnamento nell’ultimo atto, in condivisione e supporto, sono venuti a mancare.
Niente ultima carezza terrena. Niente ultimo sguardo a quei lineamenti così familiari ed unici. Nemmeno la possibilità di riporre un oggetto caro entro il feretro.
Di fronte alla nostra fragilità e caducità, davanti alla terribile fame di immortalità che cammina con noi.
Sospensione.
Distanza.
Mancata concretezza dell’evento, assenza del corpo.
Smarrimento.
Relazioni digitali.
Angoscia.
Silenzio assordante.
Ma anche lutto collettivo.
Tutto questo avrà delle ripercussioni, soprattutto in merito all’elaborazione del lutto, poichè non scegliamo di non-vedere. Siamo obbligati a non farlo.
E allora forse un po’ ci pentiamo di non averlo fatto in passato.
Se già prima si era troppo confusi, disinteressati, oggi siamo protagonisti di qualcosa che cambierà il nostro modo di vivere la morte: ne sentiamo troppo parlare, siamo sconfitti e ingurgitati in una spirale di numeri, cifre, legati ai decessi e ai contagi.
Ma la morte, accade. Eccome se accade.
Ecco dunque che il nostro carattere atavico legato all’onorare i nostri defunti, si veste di nuove consapevolezze e ritualità.
Possiamo rendere omaggio ai nostri morti, nonostante obblighi ministeriali che ci vietano determinate prassi a noi care.
La morte è diventata Digitale. Ma questo, già da un bel po’.
Cimiteri virtuali, siti per la commemorazione dei defunti, blog per esprimere le proprie condoglianze risultano essere strumenti tanto necessari ai millennials quanto, inaspettatamente, alle generazioni più anziane.
Fragili, sole, spesso dimenticate dalla società.
I rituali sono a distanza, in streaming, con la diretta di un tablet o un cellulare per coinvolgere anche coloro che non possono presenziare all’ultimo arrivederci.
A San Antonio, in Texas, una cerimonia funebre è stata proposta ai dolenti attraverso un maxi schermo, posto al di fuori della chiesa, a causa del distanziamento sociale (https://www.missionparks.com/mission-park-coronavirus-funeral-update/).
Non solo: fece scalpore qualche tempo fa un articolo del New York Times in merito ad una famiglia che fotografò la salma di Robert, riportato a casa ad Okla) per la veglia funebre. Stiamo forse tornando alle foto post-mortem? vedasi https://www.nytimes.com/2020/02/18/style/iphone-death-portraits.html
Piattaforme come Eter9, chatbot, capacità di realizzare ologrammi con il proprio defunto e molte altre possibilità potrebbero (o forse no) essere un buon modo per elaborare un lutto, sebbene diversi studi abbiano evidenziato come il lutto attraverso certe forme di approccio possa rischiare di diventare prolungato.
Da noi, funerali in diretta streaming, registrazione della deposizione dell’urna per poter essere vicini (seppur distanti), per diminuire la percezione di aver lasciato in solitudine il nostro caro.
Ma anche piattaforme a cui poter accedere (come”Memorie“, spazio virtuale per ricordare i lutti del Coronavirus).
Ma possiamo leggere una poesia, possiamo ricordare via etere attraverso l’ascolto di un brano caro al defunto. Possiamo creare un album fotografico, possiamo realizzare delle memory box, accendere una candela e condividere il nostro silenzio.
Tornare alla potenza di uno sguardo, di cui abbiamo dimenticato la valenza imprescindibile.
Possiamo attendere un tempo migliore per riproporre il nostro cordoglio alla collettività, quando saremo di nuovo capaci di un abbraccio.
Si è generata una mancanza, sotto la pressione emergenziale, una comunicazione inefficace sul senso della morte, del morire e, prima ancora, della malattia.
La speranza è che da qui, possa germogliare una nuova consapevolezza legata all’accompagnamento alla morte.
Lo spero con tutto il cuore.