Munch usò l’arte per “scrivere” la sua vita. Nei suoi quadri si avverte una profonda angoscia esistenziale, riflesso della sua vita segnata dal lutto e dalla morte.
“Malattia, follie e morte sono stati gli angeli neri che hanno vegliato sulla mia culla e che mi hanno accompagnato per tutta la vita” (Edvard Munch)
Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Oslo, 23 gennaio 1944) è stato un pittore norvegese, secondogenito di cinque figli dei coniugi Laura Catherine Bjølstad e Christian Munch.
Sin dalla più tenera età, Munch visse una lunga serie di disgrazie familiari: la morte della madre e poi quella della sorella, Johanne Sophie, entrambe stroncate dalla tubercolosi.
I gravi lutti influenzarono profondamente la vita dell’artista; anche il padre fu colpito gravemente dalle disgrazie familiari e ben presto, iniziò a soffrire di una sindrome maniaco-depressiva, aggravando ancor di più il disagio del figlio che finì per sviluppare una visione macabra del mondo.
Ulteriore sprone alla visione negativa della vita e della realtà di Munch fu la pazzia di Laura Catherine, la sorella minore, che iniziò a soffrire di crisi psichiche. Infine, il colpo di grazia arrivò con il decesso del fratello minore, Peter Andreas, che morì subito dopo il suo matrimonio.
Munch iniziò a interessarsi all’arte molto presto, quando era solo un ragazzo.
Le sue prime manifestazioni artistiche evidenziano i disagi economici che la famiglia Munch dovette affrontare, oltre ai lutti; l’artista sopportò anche la povertà e nei suoi quadri raffigurava i miseri appartamenti in cui era costretto a vivere con i suoi familiari.
Gli studi iniziali di Munch sono lontani dall’arte: frequentò per un certo periodo un istituto tecnico, per diventare ingegnere; eccelleva negli studi, ma la sua vera passione era l’arte.
Il padre, all’inizio osteggiò la sua vena artistica, ma poi si arrese alle inclinazioni del figlio e gli concesse di iscriversi alla Scuola di Disegno di Oslo e successivamente, alla Scuola d’Arte e Mestieri.
Le opere di Munch, in questa fase, sono pervase da vari spunti dal Naturalismo e dall’Impressionismo. Inoltre, sempre in questo periodo, prese parte ai circoli bohémien della città e fece della massima “Scrivi la tua vita!” – propugnata dagli intellettuali ribelli che costituivano la cerchia delle sue frequentazioni – una sorta di diktat che mise in pratica, permeando tutta la sua produzione artistica di uno spirito autobiografico, giungendo quasi a riscrivere la sua vita attraverso l’arte.
I dipinti di Munch lasciano trapelare il percorso di crescita dell’artista che, già nel quadro “La fanciulla malata”, inizia a dipingere le prime “tele dell’anima”. In questa opera, in cui l’artista ha raffigurato la malattia della sorella Sophie, si avverte già una rottura netta con il movimento dall’Impressionismo.
Questo quadro fu oggetto di aspre critiche e scatenò una profonda indignazione morale nella società.
A difendere l’artista fu l’amico, Christian Krohg, che espresse con parole efficaci il modo di concepire l’arte di Munch: “Dipinge le cose, o piuttosto, le vede, in maniera diversa da altri artisti. Vede solo l’essenziale, che naturalmente è solo quello che dipinge […] Un’opera d’arte è completa solo quando l’artista riesce ad esprimere tutto quello che aveva in mente: è proprio questo che colloca Munch all’avanguardia rispetto alla sua generazione… Riesce veramente a mostrare i suoi sentimenti, le sue ossessioni, e a questo subordina tutto il resto”.
Dopo la morte del padre, Munch visse una parentesi berlinese, durante la quale dipinse numerosi quadri. Uno, in particolare, merita una menzione: “La morte nella stanza della malata”, del 1893. In questo dipinto ritorna il tema della morte della sorella dell’artista. Nel quadro, però, non è raffigurato il dolore fisico, bensì quello psicologico: il pittore non rappresenta la scomparsa di Sophie, ma è interessato a mostrare la reazione dei familiari di fronte al misterioso evento della morte. Le figure non sono vicine tra loro, ma distanziate: il dolore, invece di unire, allontana; ognuno è bloccato e confinato nella propria sofferenza.
Sempre a Berlino, Munch dipinse il suo quadro più famoso, ritenuto il suo capolavoro: “L’urlo” (il titolo originale è Skrik) che ha visto negli anni diverse versioni.
In questo dipinto, l’artista è riuscito a concentrare tutta la sua disperazione esistenziale.
Per il soggetto principale del dipinto, sembra che Munch si sia ispirato a una mummia rinvenuta in Perù, mentre l’episodio che ha portato alla realizzazione dell’Urlo è autobiografico, ed è lo stesso artista che ce ne parla, dapprima in una pagina di diario, poi in un appunto rielaborato di quell’episodio, che l’autore ha lasciato sulla cornice del quadro del 1895: “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.
Nell’urlo, la figura in primo piano che sta gridando rappresenta l’angoscia dell’uomo.
Munch raffigura la scena e i personaggi nel suo stile pittorico crudo.
La figura deforme in primo piano sembra trasfigurare anche il paesaggio e coinvolgere nel suo strazio anche il cielo, innaturale, con le sue striature rosso sangue e il mare nero e oleoso.
Nel quadro compaiono anche le sagome di due uomini sullo sfondo, che non si curano della figura sconvolta in primo piano, impassibili di fronte all’angoscia del pittore che con tale atteggiamento ha voluto rappresentare la falsità dei rapporti umani.
Il quadro è una metafora della morte che distrugge e travolge ogni cosa, anche il senso della vita, e l’urlo disperato del protagonista è l’urlo di chi, guardandosi dentro, riesce a trovare solo sofferenza.
In copertina: particolare de “L’urlo”, 1893