Pol Pot! Un nome che dovrebbe risuonare con la stessa allegria di una diagnosi terminale, e che ci invita a un’escursione nelle contorte profondità della mente umana. Quale intricato groviglio psicologico si nascondeva dietro il volto impassibile di questo “ingegnere sociale” e indiscusso leader dei Khmer Rossi? Forse un cocktail molotov di insicurezza cronica, megalomania galoppante e una buona dose di invidia repressa verso chiunque avesse mai letto un libro più complesso di un manuale agricolo.
Il suo metodo? Semplice, se pur un tantino drastico: eliminare chiunque non si conformasse alla sua idea di “purezza” contadina, o, più prosaicamente, chiunque avesse un minimo di istruzione, o semplicemente un paio di occhiali.
Dietro la sua ossessione per la purezza agraria, si celava probabilmente la patologica convinzione che solo la sua visione, per quanto delirante, potesse salvare un popolo che, a suo parere, non sapeva nemmeno di aver bisogno di essere salvato. Un’incredibile mancanza di empatia, una freddezza glaciale che gli permise di vedere milioni di vite non come esseri umani, ma come fastidiosi ostacoli sulla strada verso la sua personale utopia rurale, un po’ come un bambino che sposta formiche senza pensarci due volte.
Tra il 1975 e il 1979, sotto il suo geniale regime, circa un milione e mezzo di persone. Sì, avete letto bene, non è un errore di stampa, stiamo parlando di circa un terzo dell’intera popolazione cambogiana – sono state sistematicamente torturate, fatte morire di fame o di stenti, giustiziate senza tante cerimonie, o semplicemente lasciate soccombere per la totale assenza di assistenza medica. Un vero e proprio capolavoro di depopolamento, un’efficienza nella distruzione che farebbe impallidire anche i più cinici teorici del controllo demografico.
La “rivoluzione” di Pol Pot non fu solo sanguinosa, fu anche incredibilmente banale nella sua crudeltà, riducendo gli esseri umani a semplici numeri o, peggio, a ostacoli da rimuovere.
E la farsa non finisce qui! Dopo essere stato “gentilmente” estromesso dal potere dai vietnamiti (un’ironia della storia, visto il loro stesso non proprio immacolato curriculum in fatto di diritti umani), il nostro caro Pol Pot non si è certo arreso. Si è rifugiato al confine thailandese e, come per magia, ha trovato nuovi alleati: nientemeno che le “democrazie” di Stati Uniti e Cina! Già, le stesse nazioni che oggi si ergono a paladini dei diritti umani, allora non ebbero scrupoli a fornire supporto a questo campione della barbarie, pur di contrastare l’influenza vietnamita e sovietica nella regione. Perché, in geopolitica, si sa, la morale è un optional, e il nemico del mio nemico è sempre un amico, anche se ha le mani sporche di milioni di vite.
Ah, l’arte della diplomazia, dove la morale è un optional e l’etica si scioglie come neve al sole di fronte agli interessi geopolitici! Per capire perché Stati Uniti e Cina, due potenze così diverse, si trovarono a sostenere quel macellaio di Pol Pot e i suoi Khmer Rossi dopo la caduta del regime nel 1979, dobbiamo immergerci in un pantano di realpolitik degno di un film di spionaggio con personaggi moralmente ambigui.
Immaginatevi lo scenario post-1979: il Vietnam, fresca di vittoria sulla superpotenza americana, invade la Cambogia e rovescia il regime di Pol Pot. La cosa, di per sé, non dovrebbe suonare così malvagia, considerando l’indicibile orrore che i Khmer Rossi avevano inflitto al loro stesso popolo. Ma ecco il colpo di scena: il Vietnam era appoggiato dall’Unione Sovietica, la nemesi acerrima degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, e anche della Cina, che vedeva con profonda diffidenza l’espansione dell’influenza vietnamita (e quindi sovietica) nel Sud-Est asiatico.
Per gli Stati Uniti, la questione non era salvare la Cambogia o punire i criminali di guerra. No, la priorità assoluta era contenere l’URSS e i suoi alleati. E se ciò significava appoggiare il “nemico del mio nemico”, anche se quel nemico era un genocida che aveva appena sterminato un terzo della sua nazione, allora così fosse.
L’amministrazione americana, con un cinismo che sfiora il grottesco, considerò i Khmer Rossi come un’utile pedina per destabilizzare il Vietnam e, per estensione, l’influenza sovietica nella regione. Questo sostegno si manifestò in vari modi: dal veto all’assegnazione del seggio della Cambogia alle Nazioni Unite al governo vietnamita, mantenendo di fatto una legittimazione ai Khmer Rossi, fino a un supporto logistico e diplomatico “sotto banco”, per non pagare lo scotto di aver sostenuto pubblicamente un tale mostro. Era una guerra per procura, con i cambogiani sopravvissuti come danni collaterali sacrificabili.
La Cina, dal canto suo, aveva motivi simili, ma anche specifici. Per Pechino, il Vietnam era un rivale storico e regionale. L’invasione vietnamita della Cambogia era vista come un atto aggressivo e un tentativo di egemonia che minacciava la sicurezza cinese nel sud. In questo contesto, Pol Pot, per quanto abominevole, divenne un alleato tattico indispensabile per contrastare l’influenza vietnamita. La Cina fornì ai Khmer Rossi armi, addestramento e supporto finanziario, trasformandoli in una forza di guerriglia anti-vietnamita lungo il confine thailandese. Non importava che Pol Pot fosse un ex allievo di Mao che aveva estremizzato le sue idee fino a livelli impensabili di barbarie; l’importante era l’equilibrio di potere nella regione e la necessità di punire il Vietnam.
In sintesi, il sostegno a Pol Pot da parte di USA e Cina fu una cinica mossa geopolitica. Non si trattava di approvare il genocidio, ma di utilizzare un regime sanguinario come strumento per indebolire l’influenza sovietica e vietnamita, dimostrando come, nel grande scacchiere internazionale della Guerra Fredda, la vita umana e la giustizia potessero essere sacrificati sull’altare della “ragion di stato”. Un episodio imbarazzante e macchiato di sangue nella storia delle relazioni internazionali, che lascia l’amaro in bocca per le vittime che, ancora una volta, furono usate e dimenticate.
Così, mentre il mondo girava, Pol Pot ha continuato la sua esistenza, fino alla sua morte “misteriosa” per infarto nel 1998. Un finale quasi comico per un uomo che ha lasciato dietro di sé una scia di cadaveri e una nazione in macerie. Ci si chiede se, negli ultimi istanti, abbia avuto un lampo di genio, magari rendendosi conto di aver fallito miseramente nel suo progetto, o se sia morto con la placida convinzione di essere stato un benefattore incompreso. Un enigma finale per l’architetto di un orrore così metodico e insensato.