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Tanatologica(mente)

L'”arte” del suicidio: storia dell’Harakiri

Il suicidio rituale in Giappone, l’harakiri, era una forma di protesta o dolore da parte della casta dei Samurai.

Molto in voga tra i Samurai, l‘Harakiri –  s. giapp. [comp. di hara «ventre» e tema di kireru «tagliare» (da Enciclopedia Treccani) fu una modalità rituale suicidaria per la quale ci si squarciava il ventre.

I giapponesi lo chiamano Seppuku, nonostante il senso sia lo stesso: dilaniarsi il ventre era una forma, per quanto assurda, di morte “onoraria”: il metodo sicuramente non garantisce una morte indolore, anzi, si soffre molto e a lungo ma, nonostante ciò, tale pratica venne attuata per ben 700 anni nel periodo Edo.

Perchè proprio la pancia?

Sembra che il ventre sia il grembo vero e proprio dove l’anima e il sentimento umano dimorano: squarciarsi la pancia significava far fuoriuscire la propria anima.

Ad oggi questa pratica non esiste più, l’unica modalità di esecuzione capitale è difatti l’impiccagione: l’harakiri però fu una forma suicidaria colma di significato in cui il massimo protagonista era l’onore.

Nell’ambito militare infatti, era considerato di maggior pregio il soldato che sceglieva la propria morte, attraverso questo gesto teatrale se voglia, rispetto ad essere sconfitto o ucciso dal nemico, generando così una libertà eterna attraverso la propria morte.

Per eseguire l’harakiri, si dovevano seguire determinate prassi: il soggetto si sedeva ponendo tutto il peso sulle ginocchia, le natiche sui talloni e le punte dei piedi distese. In tal modo il corpo non rischiava di cadere all’indietro dopo aver compiuto l’atto – posizione ritenuta infatti “poco onorevole”-.

Credits: Oltrelalinea

L’arma sovente utilizzata era o il tanto – pugnale sottile – o il wakizashi – una spada vera e propria – .

Prima dell’atto, il Samurai faceva un bagno, si copriva con abiti bianchi, colore del lutto giapponese, e mangiava come ultimo pasto ciò che più gli piaceva.

Infine, componeva uno scritto per poi dedicarsi all’atto finale davanti a una serie di “testimoni”.

L’incisione sul ventre andava da sinistra verso destra e, alla fine di questo, subentrava la figura del decapitatore che recideva la colonna vertebrale chiudendo così il gesto estremo.

Di Beatrice Roncato

Tanatologa Culturale, Tanatoesteta e Cerimoniere Funebre

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