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Morire sotto sorveglianza: estrema unzione, dipartita e sepoltura

Dall’olio santo alla terra consacrata: quando la morte diventa possesso

Prefazione eretica

Ogni religione, quando si tratta di morte, sembra avere un vizio: non riesce a lasciar morire nessuno in pace. La dipartita, che in sé è un atto naturale, viene trasformata in dogma, sacramento, spettacolo. Il morente diventa un oggetto sacro da ungere, il cadavere un trofeo da esibire, la sepoltura un atto politico oltre che pratico.

Il cristianesimo, in particolare, ha costruito un’intera coreografia per questo momento: estrema unzione, funerale, cimitero. Un teatro pensato non tanto per il morto, che non ha più alcun bisogno, ma per i vivi che restano, per la comunità che deve vedersi riflessa nei simboli e rassicurata dai riti.

L’eretico, però, non si lascia incantare. Sa che dietro l’olio santo c’è il marchio del possesso, dietro la promessa del paradiso il bisogno di controllo, dietro la croce sulla tomba la voglia di catalogare anche i defunti. Eppure, riconosce anche la sottile ironia di questo meccanismo: gli uomini hanno bisogno di consolarsi, e il potere religioso ha trovato il modo di vendere consolazione come se fosse eternità.

Con questa consapevolezza, entriamo allora nella piccola parabola di un uomo che muore, e della Chiesa che, fino all’ultimo respiro e oltre, non smette di vegliare sul suo corpo e sulla sua anima.

Un uomo che muore… e la Chiesa che non lo lascia andare

C’era un uomo, non troppo devoto ma neppure ostile, che stava morendo. Il suo corpo era ormai una macchina lenta, gli organi come ingranaggi arrugginiti che cigolavano sempre più piano. La morte, quella vera, non aveva bisogno di teologie: stava lì, silenziosa, pronta a spegnere la luce.

Eppure, prima che la fiamma si spegnesse da sola, arrivò un prete con la sua borsa di oli. Un po’ come un notaio che deve autenticare l’ultima firma, si avvicinò al capezzale. L’uomo era debole, quasi non parlava più, ma la mano del sacerdote gli unse la fronte e le labbra. Estrema unzione, lo chiamavano. In realtà, più che una carezza misericordiosa, sembrava una presa di possesso:

quest’anima è nostra, morirà dei nostri e non sfuggirà all’inventario celeste.

Il morente non ebbe tempo né forza di ribellarsi. Se avesse potuto parlare, forse avrebbe chiesto: “Non basta la mia vita, con i suoi errori e i suoi piccoli gesti, a raccontare chi sono stato? Davvero serve quest’olio per convincere Dio?” Ma la sua voce si era già spenta, e il rito fece il suo dovere: rassicurò i presenti, più che il morente.

Poi venne la dipartita. Nessuna tromba d’angelo, nessun demone affamato: solo un cuore che smise di battere e un cervello che si fece silenzioso. L’uomo si dissolse nel nulla, e intorno a lui iniziò la processione dei racconti. Per i religiosi, era “volato al cielo”; per i filosofi, “si era ricongiunto al tutto”; per i medici, semplicemente “deceduto alle ore 3:42”. La morte, biologica, restava la stessa. Era la mente dei vivi ad avere bisogno di traduzioni.

Il giorno dopo, la comunità si radunò per la sepoltura. Non bastava coprire un corpo e lasciarlo marcire in pace: bisognava inscenare l’appartenenza. Bara lucida, fiori, canti, incensi, discorsi che parlavano più dei vivi che del morto. La tomba, infine, ricevette una croce e una scritta: riposa in pace. Come se la pace fosse una concessione della Chiesa, e non il semplice risultato della decomposizione.

Il cimitero, ordinato come un archivio, sembrava il magazzino di Dio: file di pietre che dichiaravano, con orgoglio, chi era stato “battezzato, cresimato, benedetto e ora sepolto nella terra consacrata”. L’uomo, ormai polvere in attesa di divenire concime, non aveva più voce in capitolo. Ma la comunità sì, e quella voce serviva a confermare che nessuno muore mai da solo: si muore sempre dentro un’etichetta, dentro un rito, dentro un sistema che vuole ricordare più se stesso che il defunto.

Così si chiuse la vicenda: un corpo restituito alla terra, un’anima dichiarata salva da chi non può provarlo, e un funerale che lasciava dietro di sé fiori appassiti e debiti con l’impresa funebre.

L’eretico che assisteva a tutto questo sorrise amaramente. La vita, pensava, non ha bisogno di unzione finale, né di lapidi ordinate. Si spegne e basta. E ciò che le dà valore non è la benedizione di un prete né la terra consacrata, ma i giorni vissuti con coscienza e coraggio. Il resto è teatro, buono a rassicurare i vivi e a mantenere saldo il potere di chi dice di parlare a nome dell’eternità.

Il mercimonio della morte: quando anche il trapasso fa cassa

L’eretico non si ferma al rito: guarda oltre, e ciò che vede non è un aldilà, ma un’industria ben terrena. La morte, che in sé non ha prezzo, diventa mercato.

Il prete e l’olio

Il primo conto inizia già con l’estrema unzione. Un tempo, il sacerdote arrivava di corsa al capezzale come un medico dell’anima; oggi, spesso, arriva con tariffario sottinteso. Messe di suffragio, ceri, offerte “spontanee” che diventano automatismi. La salvezza eterna, curiosamente, ha sempre un costo in valuta terrena.

L’impresario funebre

Poi scende in campo l’impresa funebre, la regina di questo mercato. Bara di lusso o economica, imbottitura in velluto o in sintetico, fiori freschi o di plastica: ogni dolore viene tradotto in listino prezzi. E guai al parente che osa ridurre le spese: la comunità lo giudicherebbe come ingrato, poco rispettoso. Così, il lutto diventa un’occasione per misurare status sociale e capacità di spesa.

Il cimitero e la burocrazia

Ma il mercato non si chiude con la bara. Ci sono le concessioni cimiteriali, i loculi in affitto, i rinnovi delle tombe. Persino il diritto a marcire in pace diventa una rendita perpetua per le amministrazioni civili e religiose. Se non paghi, il corpo del caro estinto viene sfrattato. La terra consacrata ha i suoi regolamenti condominiali.

I ricordi in vendita

Non manca poi il mercato del ricordo: lapidi decorate, fotografie incorniciate, lumini elettrici a consumo, statue in marmo e angioletti kitsch. L’aldilà, nella sua presunta eternità, diventa vetrina di un consumismo eterno. Si direbbe che anche da morti non ci sia scampo dal marketing.

Conclusione eretica

Il morente muore una sola volta, ma intorno a lui nascono mille occasioni di guadagno. La morte, che dovrebbe essere il momento più intimo e radicalmente naturale, diventa così l’ultima occasione per il prete di suggellare la sua autorità, per l’impresa funebre di aumentare fatturato, per il cimitero di registrare contratti.
Il paradosso è che mentre tutti parlano dell’anima immortale, è il corpo del morto, il suo involucro ormai inutile, a generare l’ultimo flusso di denaro.

L’eretico osserva e sorride amaramente: anche davanti al cadavere, l’uomo non riesce a sottrarsi al commercio. La morte, che dovrebbe accomunare tutti, diventa ancora una volta merce, gerarchia, spettacolo. Un grande business costruito sul silenzio irreversibile di chi non può più protestare.


Di L'eretico dell'invisibile

L'autore si delinea come una mente curiosa, libera da dogmi e imposizioni, che non si accontenta delle spiegazioni preconfezionate propinate da religioni, istituzioni.. o dalla stessa scienza quando si chiude di fronte all’ignoto, tanto definire folle il concetto che 2 più 2 possano far 5.
Definirsi "l'Eretico dell'Invisibile", è già una dichiarazione di intenti.. di guerra.. come quella di andare oltre ciò che è dato per scontato, oltre le narrazioni costruite per mantenere un certo ordine sociale e intellettuale, oltre le verità imposte che nel corso dei secoli hanno modellato la percezione della realtà.
È evidente che l’autore non si limita ad un singolo ambito di ricerca, ma spazia tra spiritualità, mistero, fenomeni paranormali, storia e geopolitica, affrontando tutto con uno sguardo critico e analitico.
Ma non c’è solo il mistero a guidare ad alimentare la sua curiosità. C’è anche la consapevolezza che la storia, così come ci è stata, e ci viene raccontata, è spesso il risultato di una narrazione costruita a proprio uso e consumo dai "vincitori" a cui, anche se gli dedichiamo strade e piazze, gli eroi non sempre sono tali, le guerre non sono mai mosse da ideali puri, le istituzioni hanno intrecci con il potere economico e religioso che sfuggono allo sguardo della massa. L’autore si pone, dunque, come un investigatore dell’invisibile, colui che scava sotto la superficie per portare alla luce le contraddizioni e le ombre della storia e della società contemporanea.
L’Eretico dell’Invisibile, dunque, è quel qualcuno che non si accontenta di sapere perché consapevole dell’importanza del "Sapere di non Sapere".

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