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Tanatologica(mente)

Sky Burial: la sepoltura celeste

Quando “leggiamo” le culture altrui, soprattutto per quanto riguarda i metodi di sepoltura, dobbiamo per un attimo mettere da parte le nostre cornici culturali di riferimento, ed osservare.

Nel Sichuan, dove ad oggi vivono circa 800.000 tibetani, continuano a rimanere immutate certe pratiche e tradizioni funebri legate alla “sepoltura del cielo” (o “a cielo aperto”).

Un rito che in Tibet prende il nome di Jhator, ovvero “fare l’elemosina agli uccelli“.

Negli anni ’60-’70 il Governo cinese vietò tale forma rituale che riprese il suo corso negli anni ’80, seppur ad un occhio estraneo ed inesperto possa apparire davvero troppo macabra, poichè distante dai modelli occidentali che conosciamo.

I corpi dei defunti, infatti, seguono un iter molto particolare per la quale le membra, dopo uno smembramento da parte del “tomdem” (altresì macellaio yogin) vengono lasciate totalmente all’aria aperta nelle distese sterminate di erba.

Questo, non prima di una lunga “veglia” tra canti e preghiere, quando il defunto all’alba viene portato sulla parte della montagna che guarda verso est, nei pressi di un tempio o di un altare appositamente eretto.

Il corpo, per tre lunghi giorni, non deve essere toccato.

La figura cerimoniale del tomdem è colei che richiama a sè, tramite il fumo del ginepro e l’odore della carne, gli avvoltoi attraverso un richiamo a loro dedicato: “Shey, shey” (Cibatevi, cibatevi).

Non solo: vengono eseguite, talvolta, danze propiziatorie e canti gutturali per richiamare gli animali.

Ed è questione di istanti prima che i rapaci prendano coraggio per volteggiare sopra i resti appositamente lasciati al corso della natura.

Il processo fa sì che, nel giro di mezz’ora, non rimanga più nulla del corpo.

Tradizione vuole che l’anima dei defunti, dopo questo rituale di smembramento, raggiunga lo spazio celeste ed il corpo, semplice involucro terreno, donato al ciclo vitale dell’ecosistema.

Sebbene possa sembrare un rito macabro e incomprensibile, in realtà cela un rapporto e un’accettazione della morte naturale e in armonia con l’idea di un eterno ciclo di rinascite.

Per il Buddhismo infatti, il corpo altro non è che un involucro, custode dell’anima, che permette il viaggio terreno dell’esistenza.

Lo spirito, dunque, dopo la dipartita abbandona le membra che rimangono quindi vuote, senza bisogno alcuno di rimanere conservato.

Questo, rispettando un credo ecologico per lo smaltimento dei defunti.

Donarsi, dopo la propria morte, in pasto agli avvoltoi è un gesto generoso nei confronti della natura circostante: così facendo, il defunto ripaga i propri debiti karmici con tutti gli altri esseri viventi.

Oltre alla valenza spirituale e religiosa, tale tipo di sepoltura rispetta le necessità pratiche legate all’ubicazione, ovvero le elevate altitudini, dove prevale un terreno roccioso, per cui scavare risulta difficoltoso.

Guardare alle altrui culture può sicuramente aprire i nostri orizzonti di senso, verso un’idea di impermanenza del nostro essere: siamo solo cioè di passaggio, in un continuo gioco di cambiamento nella forma del nostro corpo, e destinati infine al nulla.

Credits: The Daily Star

Di Beatrice Roncato

Tanatologa Culturale, Tanatoesteta e Cerimoniere Funebre

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