L’emergenza sanitaria legata al Covid19 ha stravolto, a livello micro quanto macro, la percezione di libertà, di distanza, di relazione, cura, vita quotidiana e, soprattutto, morte.
Mutate le forme di ritualità, legate ad un distanziamento sociale che non ha permesso la gestualità consona al dolore e alla dimostrazione di presenza e supporto, soprattutto nelle circostanze delle cerimonie funebri.
In realtà un altro mondo è stato profanato, il mondo delle visite e del nostro rapporto con le categorie più fragili, soprattutto quella degli anziani.
In questo articolo, propongo un’intervista somministrata nel mese di maggio, in piena pandemia, alla Dottoressa Elisa Mencacci, Psico-Tanatologa, autrice del testo “Non sono più io. Dal lutto alla resilienza: un sostegno per i caregiver” e di “Dalla malattia al lutto. Buone prassi per l’accompagnamento alla perdita“.
Innanzitutto, grazie per il Tuo tempo e per la disponibilità. In questo momento di emergenza sanitaria, ci siamo trovati tutti in una condizione di fragilità, legata all’incertezza e vulnerabilità, entro una campana di vetro di isolamento e solitudine. Ci siamo dovuti reinventare, soprattutto in merito ai nostri affetti. Altresì, si è sentito spesso parlare di un elevato numero di decessi legati alla popolazione più anziana rispetto ai giovani. La questione lascia piuttosto stupiti: la minimizzazione del significato del virus attraverso l’uso di frasi quali “..solo i più anziani muoiono”, tende a significare quanto la nostra società sminuisca le generazioni più fragili. Come se questo poi, in qualche modo, potesse alleviare la pena, il cordoglio da parte delle famiglie.
D1:Questo “sminuire” gli anziani, pensi sia legato all’idea che, in età contemporanea, la vecchiaia sia ritenuta alla stregua di una malattia? Qual è il tuo pensiero a riguardo?
E: Io non credo che vi sia uno “sminuire” rivolto agli anziani, credo che sia più un vissuto diffuso di paura correlata a forme diverse di pregiudizio. La paura è quella reale: non essere produttivi, divenire inutili per la società, assumere aspetto e status non più all’altezza di un mondo sempre più competitivo e richiestivo, non essere più attivi e capaci. La paura non è quella di ammalarsi ma di “perdere”: se stessi, la proprie capacità, gli affetti, la casa, la famiglia. La demenza, ad esempio, è una delle paure più grandi associate all’invecchiare: non essere più in grado di decidere per se stessi, dover richiedere costantemente l’aiuto di qualcun altro, magari di un proprio caro. Perdere la memoria, la propria identità: questa è la paura più forte che, ad oggi, vedo associata alla vecchiaia. I pregiudizi, in aggiunta, sono di coloro che, a distanza di sicurezza, non vedono cosa è invece ancora di fare, essere e dare l’anziano oggi, anche se con demenza, anche se in una fase finale della propria vita. Ci si ferma agli stereotipi, alle rappresentazioni mediate dai canali di comunicazione, ai luoghi comuni.
D2: Gli anziani, dunque, si sono trovati in una condizione di isolamento nell’isolamento che la società impone quando si giunge a un’età ritenuta non più utile entro il sistema. Quali strumenti di supporto utilizzi ed hai utilizzato in questo periodo di emergenza?
E: In quanto psicologa che opera all’interno di un’equipe multidisciplinare, ho la fortuna di poter disporre di più strumenti ma, innanzitutto, di una visione “sistemica” che abbraccia la lettura della realtà dell’anziano da molteplici punti di vista, senza prescindere da un confronto a più voci. L’isolamento dell’anziano ha amplificato ancora di più l’utilizzo di certi strumenti propri della professione quali le tecniche narrative (dignity therapy, reminiscenza, life review) ma anche più creative / esperienziali (utilizzo di forme artistiche, scrittura, poesia, musica). Ho trovato molto utile lavorare con I piccoli gruppi di anziani (chiaramente distanziati) con focus group e gruppi di auto-mutuo aiuto per l’esplorazione di alcuni temi affettivi ed emotivi legati alla pandemia. In più devo dire che è aumentato quello che è l’utilizzo di strumenti di supporto multimediali come il tablet sia per le videochiamate con familiari o amici, sia per una stimolazione affettivo-relazionale (con immagini, fotografie, video).
D3: La parola è importante. Quali sono state le narrazioni degli anziani, in questi mesi di quarantena forzata? E quali le loro paure?
E: Assolutamente la parola è diventata un veicolo importante di narrazione ma anche di espressione emotiva, oscurata spesso da “muri” quali mascherine, distanziamento sociale, difficoltà sensoriali importanti. Le narrazioni degli anziani in struttura sono state pervase da un duplice colore: inizialmente quello della confusione, l’incertezza, il disorientamento, reso più forte da più voci che arrivavano sia dai mass media che dai familiari fuori (“cosa sta succedendo? Perché alla televisione dicono che moriremo tutti? Perchè avete tutti queste mascherine…e noi perché no? Cosa succederà dopo?), successivamente quello di sconforto e rassegnazione (“ormai finiremo qua”, “non succede nulla, chissà quanto ancora saremo costretti a stare qui”, “ormai è una prigione, non abbiamo più la libertà”). Molte delle narrazioni degli anziani hanno utilizzato vocaboli e riferimenti bellici (“questa situazione è come la guerra, anzi peggio”).Le paure più forti sono state quelle di non rivedere più I propri cari ( “ho paura di finire la mia vita qua senza aver più salutato mia figlia”) e di non poter più salutare le persone amate. La sofferenza più profonda ha avuto una coloritura assolutamente relazionale. Non c’è stata una vera e propria paura di morire, quanto di farlo soli, senza possibilità di un abbraccio, un bacio, un saluto.
D4: L’utilizzo delle tecnologie (sempre che se ne sia fatto uso), è in qualche modo aumentato entro le strutture in cui operi?
Fortunatamente sì, ed è stato un ottimo supporto. All’inizio c’è stata una difficoltà nel reperimento delle risorse (pochi tablet da dividere con più reparti) e una difficoltà nell’adattarsi a questa nuova, diversa, modalità comunicativa e relazionale (l’unica a disposizione per rimanere In contatto con I propri cari). Il tablet ha permesso una rapida connessione con il familiare dell’anziano così come una discreta capacità di fruire di più canali (visivo e uditivo, cosa mai sperimentata prima dagli anziani). Si è potuto vedere, parlare, cantare! La reazione iniziale degli anziani è stata di sorpresa e perplessità, ma grazie all’aiuto di una costante supervisione è stato progressivamente più semplice, divenendo un’abitudine consolidata. Purtroppo, non è stato semplice nell’interazione con anziani con demenza, o patologie psichiatriche, in quanto è stato necessario instaurare una continua mediazione da parte dell’operatore (in questo caso io psicologa). Non sono state poche le difficoltà, e lo sono tuttora, ed è necessario il supporto di una figura psicologica che sappia preparare il setting, comprendere le reazioni emotive e le difficoltà, gestire I momenti di silenzio, imbarazzo, sfogo, anche le crisi di pianto. Il tablet è diventato un vero e proprio strumento, e come tale richiede preparazione, tempo, attenzione.
D5: Hai notato un aumento di livello di riflessione in merito al pensiero di morte?
Inizialmente direi di sì, l’associazione covid-anziani-morti ha provocato un aumento esponenziale di pensieri, battute, richieste attorno alla morte, legate in particolar modo al processo finale, quello relativo all’ultimo saluto, all’addio, alla preparazione della salma. Questo è stato, ed è ancora oggi, una dimensione fortemente impattante nell’anziano, che richiede spazio e tempo per essere elaborato. Con il tempo però, ho notato una maggior normalizzazione da parte dell’anziano rispetto ai temi della morte e del morire, aiutati dal contesto di comunità e dalla possibilità di poter condividere il pensiero con altri pari o con professionisti.
D6: Il metodo di narrazione e della Dignity Therapy ha, in questi mesi più che mai, esiti positivi?
Personalmente credo che il metodo narrativo possa essere davvero qualcosa in più: non solo in termini di gestione dell’emergenza, quanto di intervento preventivo. Da sempre ho utilizzato questo approccio, ancora prima dell’emergenza, e ad oggi si conferma la sua utilità. Ho notato quanto avesse fornito la possibilità, negli anziani, di affrontare con maggior risorse questo periodo, facendo leva sulla rielaborazione di sé e delle cose veramente importanti nella propria vita.
D7: Hai notato un aumento/ritorno alla spiritualità?
Inizialmente l’evento ha destabilizzato in maniera così forte tutto che si è assistito ad una nuova ridistribuzione dei valori e dei bisogni nell’anziano. La mancanza di forme di assistenza religiosa, ritualità di gruppo, funerali, pratiche di gruppo con volontari (preghiere, meditazioni), ha sicuramente tolto alcuni riferimenti importanti per l’anziano, mancanza che ha richiesto quindi di poter essere “sostituita”. Il bisogno di spiritualità è, e sarà a mio avviso, sempre più forte, laico e “individualizzato”, proprio perchè il distanziamento sociale impone nuove modalità e nuovi spazi. La vera sfida, credo, sarà proprio quella di ri-creare nuove modalità individuali (o di piccolo gruppo) per curare questa spiritualità, molto forte nell’anziano, ancorata a bisogni di nuovi rituali, un incontro diverso con la Natura, il raccoglimento, la speranza.
D8: Pensi si possa parlare, in questo caso, nell’evento emergenziale, di lutto delegittimato? Mi spiego meglio: quando accade la perdita di una persona anziana, proprio in virtù del fatto che “tanto la sua vita se l’è fatta” (ed altre frasi irrispettose), il suo nucleo familiare possa tendere a internalizzare questo pensiero e sentirsi in imbarazzo nel parlare del proprio lutto o di non poterne parlare perché “a quell’età ci si deve aspettare che accada”?
Assolutamente sì. Ma questo aspetto credo che dipenda moltissimo dal contesto e dal servizio che accoglie questo nucleo familiare. Se l’equipe è in grado di prendere in carico tutto il nucleo familiare in maniera anticipata rispetto all’evento finale, attraverso confronti, colloqui di supporto, una corretta pianificazione condivisa della cure, questo lutto possa divenire legittimato e naturale. I familiari, spesso, non trovano spazio e modalità adeguate di apertura per poterne parlare e, ancor prima, di momenti di vera e propria death education. La figura dello psicologo è, in questo aspetto, a mio avviso fondamentale.
D9: In merito alle perdite (se ne sono avvenute a causa del Covid entro le strutture dove operi), quali differenze hai notato rispetto ad un ante-emergenza? Ovvero, il pensiero comune è che molti anziani muoiano da soli, senza il supporto familiare, entro le strutture a loro dedicate. In questo periodo, come sono state vissute le perdite?
Allora, fortunatamente le perdite avvenute non sono state dovute al Covid ma, nostro malgrado, condizionate dallo stesso. Le misure precauzionali adottate hanno costretto tutti noi a rivedere completamente il processo di accompagnamento, a partire dalle cure palliative, alla pianificazione condivisa delle cure, alla gestione degli ultimi momenti di vita. Purtroppo le morti sono state precedute da pochi, brevi, intensi momenti dedicati ai familiari per poter fare visita, salutare, diro addio. I momenti di saluto sono stati di una persona alla volta, con mascherina e guanti, per circa 15 minuti. Un tempo troppo breve, spesso straziante. In questo periodo abbiamo però riscoperto quelle accortezze assistenziali che, come equipe, sentivamo in carico come quasi a supplire, a prendere il posto delle cure dei familiari purtroppo non possibili. Questo senso di responsabilità, atto di estrema fiducia, ci ha permesso di riprendere contatto con quei gesti compassionevoli, quelle cure fatte di parole, sorrisi, musica, profumi. Alcune perdite sono state vissute in solitudine, altre fortunatamente no. Certo l’impatto psicologico, per le famiglie ma soprattutto per gli operatori, sarà forte e necessiterà di interventi di presa in carico, a partire da momenti di condivisione e di spazio di rielaborazione emotiva
D10: Cara Elisa, siamo giunti alla fine, ma ho un’ultima domanda da porti. Ti chiedo dunque quale, alla luce di ciò che sta accadendo ed accadrà, possa essere un’evoluzione nella cura dei più fragili e degli anziani, dal tuo punto di vista. Pensi, inoltre, che la società possa imparare da questa difficoltà globale per evolvere in positivo verso questa categoria?
Io credo personalmente che questo tempo sia stato un vero e proprio terremoto. Ha rimesso in dubbio le nostre sicurezze, amplificato dubbi e timori, aperto a nuovi scenari. Il mondo degli anziani fragili e dei servizi di cura sono, e saranno, letteralmente stravolti, richiamando con forza alcuni punti fondamentali: la necessità di un percorso di formazione mirato e competente per tutti gli operatori di cura in merito a temi quali la comunicazione, le scelte etiche, la death education, le cure palliative; la ristrutturazione di servizi geriatrici che valorizzino le figure psicologiche come elementi chiave per il supporto all’equipe e alla gestione delle dinamiche familiari (in primis il lutto e il fine vita, ma anche I vissuti correlati alle perdite e all’isolamento). Ritengo che si possa imparare molto e apprendere nuovi strumenti, per noi professionisti del settore ma anche per tutta la cittadinanza: l’anziano non è solo fragile ma possiede risorse, capacità, bisogni, diritti. La riflessione sui diritti degli anziani sarà, e dovrà, essere un punto imprescindibile di partenza: il diritto a poter continuare a essere persona fino alla fine, il diritto alla salute ma anche alla libertà, il diritto ad una vita (ed una morte) con dignità.