La relazione tra l’essere umano e la morte, tra cultura società e ideologia.
Questa immagine scelta come copertina dell’articolo, penso sia decisamente intuitiva: adoro Klimt, la sua arte, i suoi colori e i simboli da cui scaturiscono riflessioni negli occhi di chi osserva.
“Morte e vita“, (Klimt, 1915) è difatti una chiara dichiarazione d’amore nel rapporto Vita e Morte, nella sua complessa ma così semplice e genuina ciclicità: veniamo al mondo, conosciamo le viscere dell’amore, del bene, dell’odio e della sofferenza, per poi avvicinarci al fine della vita, la Morte.
Il rapporto tra uomo e Morte è profondamente radicato tra vita sociale, cultura, politica a seconda del lato del mondo in cui ci troviamo. Rapporto che, nello spazio e nel tempo è stata protagonista – e lo è sempre – di un’evoluzione in cui si ritorna pian piano a reintrodurre la Morte nel quotidiano.
La società Occidentale in particolar modo sembra essere stata vittima di meccanismi dove la Morte, soprattutto a partire dal periodo post bellico, è stata isolata e relegata in quelle stanze buie di ospedali e non luoghi dove potesse rimanere celata e lontana dalle nuove visioni – più moderne e ottimiste – della vita quotidiana.
Il progresso, la società sempre più legata ai beni di consumo e di massa non poteva permettersi di riconoscere quel ruolo fondamentale della morte e di tutto ciò che essa porta con sè: l’interruzione del progresso, la fine, il cessare del meccanismo eterno.
L’uomo occidentale ha, difatti cercato mille modi per – pur non riuscendoci – fermare o mutare la morte, spostandone la data di scadenza un poco più in là, attraverso i farmaci e la condizione nuova delle società del benessere.
In realtà però, alcuna società al mondo, così come ogni cultura può escludere la morte dalla vita, poichè fatto universale e sintomo di un unico destino per tutti.
La società contemporanea sta facendo i conti con una visione più autentica e intima con la morte: nel periodo greco – romano e nella tradizione cristiana, essa era un fatto sociale più sentito e curato nella sfera pubblica, mentre oggi si tende ad emarginarla, a non volerne vedere le piaghe dolorose nel lutto e nella sua elaborazione.
L’individuo oggi è difatti richiamato a smaltire il proprio lutto nella maniera più celere e collaborativa a discapito della propria salute e a favore di una società dove il tempo e lo spazio non perdonano la perdita stessa di tempo, impiegabile invero nella produzione perpetua e perenne.
Non ci è permesso soffrire, lamentarci, piangere ed esternare i nostri dolori e pensieri poichè potremmo distogliere anche l’attenzione altrui dalla produttività, rendendo il nostro spazio luttuoso un’attività privata e a cui spesso siamo lasciati soli.
Solo negli ultimi decenni i Death Studies hanno però evidenziato quanto le ritualità legate al lutto siano fondamentali per elaborare le perdite che la vita reale ci propone e che purtroppo non possiamo assolutamente accantonare.
Esistono momenti, prima o poi, entro il quale siamo richiamati a tu per tu con i nostri fantasmi, con i nostri dolori, e nessuno oltre a noi stessi può elaborarli al nostro posto facendo rivolgere il nostro sguardo dentro di noi.
Ognuno, dunque rappresenta la morte, la perdita nonchè la sofferenza nella maniera più intima ed unica sino a trovare da sè il miglior modo per elaborarla e reinventarsi.
Sicuramente però, per elaborare il lutto è giusto proporre e autoproporsi – perchè no -rituali dedicati per concretizzare la perdita ed il senso di ciclicità nascita – vita – morte.
Anche se tendiamo a velarla, renderla giocosa ed evitarla, la morte è reale, viva, vera e spesso tentare di esorcizzarla distoglie l’attenzione dal ricercarne il significato profondo: meccanismo che aiuta noi – ancora vivi – a dare un senso più profondo alla vita e – per quanto concerne i nostri morti – a donare loro vita eterna attraverso il nostro pensiero e il nostro amore.