Forse non tutti sanno che, tra il Rìo Zamora e il Rio Pastaza (tra Perù ed Ecuador) esiste una tribù che dimora nella foresta amazzonica, cullata dalle cascate e i loro spiriti sacri.
Sono gli Jivaro, dall’etnia dei Shuar, che ancora oggi lottano per la propria sopravvivenza a causa dell’espansione delle multinazionali.
Ciò che caratterizza questa etnia è un’usanza molto, molto particolare: il rituale della riduzione delle teste ovvero, il saper rimpicciolire la scatola cranica dei nemici.
Queste teste prendono proprio il nome di Tsantsa.
Tale pratica rituale, in realtà, negli ultimi anni è stata protagonista di un’importante calo nella sua realizzazione grazie a leggi apposite che ne vietano l’attuazione, ritenuta un atto barbarico e svuotato del suo significato più profondo.
Quando ci approcciamo alle altrui tradizioni infatti, spesso ci facciamo sopraffare dal nostro etnocentrismo, spogliando di ogni qualsivoglia significato le usanze a noi sconosciute e spesso incomprese.
Basterebbe aprirsi al mondo per capire che, invece, ogni singola tradizione è pregna di significati imprescindibili.
La pratica di realizzazione delle Tsantsa aveva, ai suoi albori, un significato religioso: rimpicciolire il teschio del vinto significava recludere il suo spirito assoggettandolo dunque ai voleri dei cacciatori di teste.
In tal modo il defunto non avrebbe potuto vendicare la propria morte e, altresì, questa piccola testa fungeva da monito al nemico.
Il procedimento per questo particolare rituale era piuttosto lungo e delicato, attuato in un luogo segreto della foresta: partendo infatti dall’asportazione della scatola cranica, con premura si stava attenti a non scollare il cuoio capelluto e la pelle del volto.
Ogni singolo passaggio era accompagnato da canti rituali e spirituali.
Dopo di che, la testa veniva riposta in una pentola di acqua bollente in cui era stata messa in infusione una corteccia di tannino.
Solo dopo 2-3 ore, le dimensioni della testa erano ridotte di tre volte delle misure originali.
Dopo tale delicato passaggio, ci si adoperava per ridare forma alla testa rimodellandola e ponendovi all’interno della sabbia per eliminare eventuali residui organici.
Infine, la testa veniva dipinta di nero, con la polvere di carbone, ed utilizzata poi in riti religiosi e cerimonie, risultando ridotta ad un quarto delle dimensioni naturali..
Sembra che dopo alcuni anni, sette per esser precisi, il valore spirituale di queste piccole teste scemasse e che molti se ne liberassero tranquillamente, mentre altri preferissero tenerle per ricordo.
Le Tsantsa furono oggetto di interesse e curiosità, in passato, da parte di antropologi e collezionisti: come accennato inizialmente, grazie ad alcune leggi da parte delle autorità ecuadoriane il fenomeno venne in qualche modo contrastato comportando, dunque, una diminuzione drastica di questo tipo di collezionismo.
In particolare negli Stati Uniti è stato esplicitato il divieto di importare le Tsantsa a partire dal 1940 e, negli anni ’90, molti musei iniziarono a restituire al governo ecuadoriano le tsantsa riposte entro le proprie teche.
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