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Cultura Eretico dell'invisibile Lugere: i passi del lutto

VAJONT

ANATOMIA DI UN SACRIFICIO MODERNO E LA FARSA DEL PROGRESSO

Il 9 ottobre 1963 non fu solo una data. Fu un sigillo impresso sulla carne viva di oltre 1.910 vite spezzate in appena quattro minuti. Questo non fu un incidente; fu l’annientamento di intere comunità, una carneficina rapida e totale. Il disastro del Vajont non fu una fatalità imprevista, ma un sacrificio lucido e cinico, offerto sull’altare del “progresso”, della “modernità” e dell’insaziabile fame di profitto, mascherato da “bene comune”.

Per decenni, ci hanno raccontato la favola del “tragico errore”, della “sottovalutazione dei rischi”. Ma questa è la narrativa dei vincitori, dei carnefici vestiti da ingegneri e finanzieri, che hanno trasformato il Vajont in un monito didascalico anziché nel grido di accusa che dovrebbe essere.

Il Monte Toc: Un Monito Ignorato, Non Sconosciuto

…il “monte che cammina” lo chiamavano gli abitanti della valle, e non era un enigma. La sua instabilità geologica era nota da secoli. Frane, smottamenti, movimenti tellurici: la terra stessa urlava il suo disappunto. Ma l’industria idroelettrica, con la sua visione miope e la sua arroganza scientista, ha scelto di ignorare queste voci antiche. Ha preferito credere ai calcoli su carta, ai modelli teorici, al cemento armato, piuttosto che alla saggezza popolare e alla storia di una montagna che non voleva essere domata.

La diga, un’imponente e “magnifica” opera di ingegneria, non era un baluardo contro la natura, ma un catalizzatore della sua furia. La sua costruzione alterò irreparabilmente l’equilibrio precario del monte, inzuppando i suoi strati, gonfiandoli, e preparando il terreno per l’inevitabile. Non si trattò di una sorpresa, ma di una conseguenza. Una conseguenza prevista, ignorata e, in ultima analisi, accettata.

La Responsabilità: Un Gioco di Specchi tra Potere e Impunità

Le sentenze dei tribunali, con le loro condanne tiepide e le pene irrisorie, sono state un’altra beffa. Hanno tentato di chiudere la questione con un colpo di spugna legale, riducendo la tragedia a un “disastro colposo”, come se la colpa potesse essere misurata in una manciata di anni di reclusione per pochi capri espiatori. Ma la vera colpa non era solo degli ingegneri o dei dirigenti della SADE (Società Adriatica di Elettricità), bensì di un sistema. Un sistema che privilegiava il profitto sulla vita umana, la rapidità sull’accuratezza, l’influenza politica sulla sicurezza.

Il Vajont fu un disastro di sistema, un’incarnazione dell’impunità che il potere economico e politico si concede quando le vite dei “piccoli” sono in gioco. Non fu un errore, fu una scelta. La scelta di continuare a riempire il bacino nonostante i chiari segnali di cedimento, la scelta di non evacuare la popolazione, la scelta di sminuire i pericoli per non perdere investimenti e prestigio.

Il Fiume di Fango: La Cancellazione di un Mondo

La massa d’acqua e fango che piombò su Longarone e i paesi limitrofi non fu solo una distruzione fisica. Fu l’annientamento di una cultura, di una storia, di intere comunità. Città spazzate via in pochi minuti, case, chiese, memorie ridotte a detriti irriconoscibili. E con esse, la negazione del diritto di esistere per chi abitava quelle valli.

I superstiti, i “fortunati”, furono condannati a vivere con l’eco di quell’onda, con il fantasma dei loro cari, con la consapevolezza che la loro distruzione era stata evitabile. Furono lasciati a ricostruire non solo le case, ma anche un senso, in un mondo che aveva dimostrato di poterli sacrificare con indifferenza glaciale.

Vajont Oggi: Una Lezione Ancora Inascoltata

Cinquant’anni dopo, la diga del Vajont resta lì, imponente e silenziosa, come una cicatrice nella montagna. È diventata un monumento, un luogo di pellegrinaggio, un’attrazione turistica. Ma il suo vero significato è spesso edulcorato, trasformato in una lezione di “gestione del rischio” o di “resilienza umana”.

L’eresia del Vajont sta nel rifiutare questa narrazione pacificata. Sta nel gridare che il progresso, quando cieco e avido, è una forza distruttiva. Sta nel ricordare che le vite umane non sono un costo marginale da includere nei bilanci aziendali. Sta nel riconoscere che certe tragedie non sono “fatalità”, ma esiti prevedibili di scelte immorali e irresponsabili.

Il Vajont non è una lezione imparata. È una ferita aperta, un monito costante contro l’arroganza dell’uomo di fronte alla natura e, soprattutto, contro la capacità del potere di sacrificare i deboli in nome di una visione distorta di benessere. E finché non riconosceremo questa cruda verità, saremo condannati a ripetere gli stessi errori, sotto forme diverse, in altre valli, con altri nomi. Il sacrificio del Vajont non è finito, continua a risuonare ogni volta che il profitto viene anteposto alla vita.

L’Epilogo del Vajont: Il Teatro della Commemorazione e la Farsa Istituzionale

Se la tragedia del 1963 fu un atto di violenza corporativa e statale, ciò che è venuto dopo è stato un prolungato e sottile atto di ipocrisia: il teatro della commemorazione istituzionale.

Ogni 9 ottobre, l’Italia intera si ferma per un momento di “dolore condiviso”. Ma per coloro che hanno perso tutto, e per chi osserva con occhio critico, le cerimonie ufficiali non sono altro che farce allucinanti, messe in scena per assolvere il Potere da un crimine che non ha mai veramente espiato.

il Palco e gli Attori: l’Assoluzione Silenziosa

Le massime cariche dello Stato, con la loro presenza imponente, non portano pentimento, ma tentano di cooptare il dolore. Salgono sul palco per leggere discorsi preconfezionati che, pur piangendo le vittime, evitano accuratamente di nominare i veri demoni: l’avidità finanziaria, l’assenza di controlli statali, l’arroganza della tecnica.

Il loro è un rito di purificazione pubblica a costo zero: un minuto di silenzio vale più di cinquant’anni di ammissione di colpa. La tragedia viene trasformata in un inno alla “resilienza” e al “risorgimento” della comunità, distogliendo lo sguardo dal fatto fondamentale: non ci sarebbe stata alcuna necessità di resilienza se lo Stato avesse fatto il suo dovere.

Il gesto istituzionale mira a stabilire una “memoria addomesticata”. In questa narrativa ufficiale:

  • L’evento è ridotto a una Fatalità: Si sposta il focus da una catena di responsabilità umane e sistemiche a una generica “tragedia”, un evento quasi inspiegabile che richiede solo cordoglio.
  • L’Imputato è la SADE (o l’Ingegnere), non il Sistema: Si isolano i colpevoli in figure specifiche (già condannate con pene irrisorie), lasciando intatte le dinamiche politiche ed economiche che hanno permesso loro di agire indisturbati.
  • Il Dolore è Nazionalizzato per Zittire la Rabbia: Il lutto viene reso un patrimonio nazionale, unificante, con lo scopo (involontario o meno) di disarmare la critica e la legittima richiesta di giustizia radicale.

In contrasto con il fasto freddo e formale delle istituzioni, il vero rito del Vajont non si svolge sotto i riflettori. Si svolge nella notte tra l’8 e il 9 ottobre, nella camminata silenziosa e faticosa lungo la diga fino al cimitero, un percorso fatto dai residenti, dai familiari e dai pochi fedeli alla memoria non tradita.

Questa è la commemorazione eretica: un atto di resistenza contro l’oblio e contro l’ipocrisia. È il momento in cui la comunità riafferma la sua verità: che quella catastrofe fu un omicidio di massa in nome del profitto.

Finché le istituzioni non si presenteranno al Vajont con l’umiltà di chi chiede perdono per un crimine sistemico, e non con l’arroganza di chi dispensa conforto e benedizioni, le loro cerimonie non saranno altro che un’offesa ulteriore alle vittime, il tentativo finale di seppellire la verità sotto un tappeto di fiori e retorica vuota.

Conclusioni Eretiche: Un Fallimento Giudiziario, Un Crimine Impunito

Ci hanno insegnato a considerare il Vajont come una tragedia; l’eresia ci impone di riconoscerla come un crimine di sistema. Il percorso giudiziario che ne è seguito, culminato in sentenze tiepide e pene irrisorie (pochi anni di carcere per un massacro di oltre 1.910 persone), non è stato un atto di giustizia, ma il suo più grande fallimento.

Il giudizio non ha condannato la Cupola, ma i suoi Pedoni. Mentre le vite venivano svalutate, le alte sfere politiche e finanziarie rimasero immuni, lasciando intatto il modello predatorio che aveva causato la strage. Il Vajont ha dimostrato che in Italia, se sei abbastanza potente, puoi commettere un omicidio di massa per avidità e cavartela con una tirata d’orecchi.

Oggi, l’atto finale di questo fallimento si consuma ogni anno nelle commemorazioni istituzionali. Queste non sono celebrazioni della memoria, ma farce allucinanti, messe in scena per pacificare la coscienza nazionale e tentare di cancellare la rabbia. Le loro corone e i loro discorsi formali non sono altro che un tentativo di seppellire per sempre la scomoda verità: che il disastro fu una conseguenza prevedibile e accettata di una cieca corsa al profitto.

La vera lezione del Vajont non è la “resilienza” dei sopravvissuti, ma l’implacabile immunità dei colpevoli.

Finché la diga rimarrà un muto monumento a un potere che non ha mai pagato il suo debito di sangue, e finché le commemorazioni saranno dominate da chi dovrebbe chiedere perdono e non distribuire conforto, il Vajont resterà un’apocalisse incompiuta: il monito che il prezzo del progresso, in questo Paese, è sempre pagato dalle vittime, mai dai carnefici. La battaglia per la verità, in questa valle, non è ancora finita.

Di L'eretico dell'invisibile

L'autore si delinea come una mente curiosa, libera da dogmi e imposizioni, che non si accontenta delle spiegazioni preconfezionate propinate da religioni, istituzioni.. o dalla stessa scienza quando si chiude di fronte all’ignoto, tanto definire folle il concetto che 2 più 2 possano far 5.
Definirsi "l'Eretico dell'Invisibile", è già una dichiarazione di intenti.. di guerra.. come quella di andare oltre ciò che è dato per scontato, oltre le narrazioni costruite per mantenere un certo ordine sociale e intellettuale, oltre le verità imposte che nel corso dei secoli hanno modellato la percezione della realtà.
È evidente che l’autore non si limita ad un singolo ambito di ricerca, ma spazia tra spiritualità, mistero, fenomeni paranormali, storia e geopolitica, affrontando tutto con uno sguardo critico e analitico.
Ma non c’è solo il mistero a guidare ad alimentare la sua curiosità. C’è anche la consapevolezza che la storia, così come ci è stata, e ci viene raccontata, è spesso il risultato di una narrazione costruita a proprio uso e consumo dai "vincitori" a cui, anche se gli dedichiamo strade e piazze, gli eroi non sempre sono tali, le guerre non sono mai mosse da ideali puri, le istituzioni hanno intrecci con il potere economico e religioso che sfuggono allo sguardo della massa. L’autore si pone, dunque, come un investigatore dell’invisibile, colui che scava sotto la superficie per portare alla luce le contraddizioni e le ombre della storia e della società contemporanea.
L’Eretico dell’Invisibile, dunque, è quel qualcuno che non si accontenta di sapere perché consapevole dell’importanza del "Sapere di non Sapere".

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