Riflettere sulla morte e sull’attaccamento alla vita, si può se lo si fa osservando un’opera d’arte meccanica?
La società contemporanea ci pone su un bivio: placare, nascondere ed omettere le nostre emozioni, soprattutto allorquando queste siano di natura triste e non allineata agli standard, o dimostrare al mondo prima che a noi stessi la nostra fiducia nella felicità.
Certamente, riflettere o affrontare il tema della morte fa parte della prima possibilità.
Non pensiamo mai alla nostra impermanenza, così come non pensiamo quasi mai al dolore e alla perdita.
Eppur eppure, vi è un’opera d’arte capace – attraverso un robot – riflettere su noi stessi, sull’empatia di cui spesso non siamo capaci e sulla non eternità.
“Can’t help myself“, opera realizzata da Sun Yuan e Peng Yu, è una vera e propria performance nata nel 2016 costruita in acciaio inossidabile, cellulosa, sensori connessi ad una griglia illuminata grazie al riconoscimento Cognex ed alluminio.
Fu proprio il Museo Guggenheim a commissionare loro questo progetto, con l’intenzione di riprodurre – attraverso un apparecchio meccanico – la metafora della vita umana:
siamo controllati in qualche modo dalla società, viviamo le nostre relazioni altresì in modo meccanico, così come – a causa dei meccanismi di una società liquida – interscambiamo relazioni umane senza grandi remore, a discapito dei legami profondi e veritieri.
Il robot, macchinario di modeste dimensioni, è posto dietro ad una parete ed ha un unico scopo, racchiuso in quella stanza di acrilico: contenere il fluido idraulico che fuoriesce senza sosta.
Nel caso in cui non fosse riuscito a contenerlo tutto, sprecandone molto, avrebbe cessato la propria “vita“.
Ed è proprio questo, il punto: l’attaccamento alla vita in una danza veemente dove lo spettatore riesce in qualche modo ad entrare in empatia con la macchina.
Lotta ogni giorno per sopravvivere a quello successivo o, perlomeno, questo è ciò che è accaduto sino al 2019.
La scelta del colore rosso sicuramente non è casuale e ricorda, in effetti, il sangue: non è una novità che i due artisti siano soliti evidenziare il proprio dark humor nelle proprie opere.
Nel giro dei 3 anni di vita, il robot ha iniziato a manifestare la propria stanchezza nel non riuscire a stare dietro al liquido come avrebbe voluto (non è forse anche questa una metafora umana, nel dover rincorrere il tempo?).
Ha cominciato a perdere sempre più “sangue”, sopravvivendo.
Nel 2019 ha ufficialmente smesso di funzionare, abbandonandosi con la sua carcassa metallica e finendo così la “performance”.
La scena, a quanto pare, è stata raccapricciante: gli spettatori infatti hanno potuto osservare i suoi ultimi istanti di vita, dissanguandosi.
Forse dovremmo imparare qualcosa da questa opera: vivere in modo meno frenetico, senza sprecare il nostro tempo dietro alla fretta e ai dettami di ciò che la società decide per noi.
A pensarci bene, infatti, ci attende lo stesso destino che ci accomuna, tra umani e robot, destinati al tempo a nostra disposizione.